a me non è che mi freghi molto, ma questo non pare interessare.
mi viene in mente george clooney in “dal tramonto all’alba” (1996) quando dice qualcosa come: “è vero, non mi frega niente di te: mi interessa solo di me, di quel figlio di puttana di mio fratello [quentin tarantino, ndr] e di non essere arrestato”, o qualcosa del genere.
ogni mia presa di distanza da un mondo malato, ma a quanto pare ampiamente accetato, viene presa come stramberia, pigrizia, incomprensibile presa di posizione, privilegi di uno che se lo può permettere.
forse è vero: forse me lo posso permettere, almeno in una certa misura. a volte penso che il potermelo permettere mi obblighi a farlo.
prendo le distanze dal contingente, torno ad un piano più ampio.
dopo il piacevole sconfinamento nella narrativa con “io resto qui” di marco balzano (2018), sono tornato alle mie letture storico-ibrido-saggistiche.
“io resto qui” è un libro che merita. devo dire grazie a mia sorella che me lo ha regalato. oltre alla storia, all’impegno, all’abilità descrittiva, ho apprezzato il finale. è un finale aperto. di quelli che lasciano in sospeso, in cui non tutto finisce bene. alcune storie, alcune vicende, non si chiudono, restano lì, ma non per noncuranza. restano lì perché è la realtà, perché l’autore ha deciso di raccontare una parte di una storia, che è comunque storia a sé stante, che funziona, ha ritmo. questa storia però non è che un pezzo di una più grande: la storia di una comunità montana, nel caso specifico, che affronta la guerra e lo scempio di una grande opera. il resto è il prima e il dopo di quella storia.
i finali aperti mi piacciono: danno la possibilità di immaginare, di astrarsi, di pensare a come potrebbe finire.
c’è tuttavia un equilibrio molto sottile fra una storia non finita e un finale aperto. il chiudere le storie si ha la percezione che a volte venga percepito dagli autori come una esigenza. penso ad un film, “5 pezzi facili” con jack nicholson, 1970. come finisce quel film? tecnicamente in nessun modo. non finisce. il protagonista, nicholson, lascia la moglie e un discreto numero di problemi ad una stazione di servizio. chiede un passaggio ad un camionista, sale sul camion, il camion parte e fine del film. dove va? la moglie cosa fa? lui tornerà? non si sa. ma questo non fa di “5 pezzi facili” un film tirato via. anzi. ne fa una storia profonda, ben raccontata, che narra un pezzo di storia, evocativa e piena di significati. credo che le migliori forme artistiche siano quelle che creano stimoli. non per forza danno la soluzione ai problemi. raccontano la realtà e cercano di dare degli strumenti per poterla interpretare. poi però il compito è del fruitore dell’opera. è lui che deve fare le connessioni. ammiro molto salvatores come regista: sono affezionato a tutti i suoi film, ma “amensia” – pellicola del 2002, divertente, ben girata e che guardo sempre con piacere – è per me il classico esempio di un cinema che ha l’ambizione di iniziare e finire lì. tutto va a posto, in “amnesia”: il buono risolve tutti i suoi problemi senza dover ricorrere a traffici illeciti, i cattivi muoiono, i figli ingrati si devono occupare dei loro genitori ridotti allo stato vegetativo. fine. posso uscire dal cinema (o chiudere il libro) e pensare che quel pezzetto sia autosufficiente, che tutti inizi e finisca lì. non mi porto dietro nulla una volta finita la mera fruizione.
sto leggendo di nuovo emilio lussu (1890 – 1975). ho letto praticamente tutto “un anno sull’altipiano” mentre me ne stavo spaparanzato su una spiaggia del gargano. ormai 3 anni fa. avevo in testa “uomini contro”, film di rosi del 1970 che prende spunto da quel libro. non mi fa mai bene vedere il film prima di leggere il libro. mi toglie la capacità di astrazione. nonostante questo mi sono perso in quelle pagine. avevo letto da poco “cent’anni a nordest – viaggio fra i fantasmi della guera granda” di wu ming 1 e “un anno sull’altipiano” mi sembrava la giusta continuazione. l’assurdità della guerra, concetti come “patria” e “nazione” si collegano a “sacrificio” ed “eroismo” falciando vite per cause che nulla avrebbero a che fare con quei conflitti. l’assurdità della guerra, tutta la sovrastruttura ideologica che la sostiene: una vera montagna di merda.
con lussu mi trovo bene. con lussu non ho quella identificazione totale di chi la pensa in tutto e per tutto come me. lussu è partito per la “guera granda” come volontario. ci credeva. solo dopo si è accorto della allucinazione di massa. lussu non è mai stato comunista. ha sempre rifiutato la rigidità della organizzazione leninista e ha sempre avuto un percorso politico coerente con questa sua visione.
lussu è uomo che stimo profondamente. il coraggio, la determinazione, la perspicacia politica, la capacità di connettere gli eventi è invidiabile. “marcia su roma e dintorni” (1931) è un libro che andrebbe letto nelle scuole. rendendo nuovamente onore alla statura del personaggio, ne ho particolarmente apprezzato l’introduzione. lussu scrive che questo suo libro non vuole essere un saggio nè un opera con velleità storiche. è il suo punto di vista, il suo vissuto, ciò che il suo occhio ha visto quando le squadre fasciste hanno iniziato ad imperversare.
chiaramente E’ un libro storico. quello che lussu ha voluto sottolineare è il suo sottrarsi ai canoni di un libro storico, che non riguardano l’oggettività di un’opera, ma piuttosto tutto il processo di documentazione e verifiche. lussu racconta quello che ha visto. e lo racconta tramite il suo sguardo.
la violenza squadrista, i soldi di agrari e imprenditori a finaziarla, la politica di non intervento da parte delle forze dell’ordine: è la realtà di quegli anni. lussu la racconta come meglio non si potrebbe. c’è forse anche un velo di ironia, specie quando racconta dei personaggi più improbabili della sua città (gente senza arte nè parte che viveva alla giornata ma con una gran voglia di comandare: certe descrizioni mi hanno ricordato molto quello che dicevano di umberto bossi prima che fondasse la lega), divenuti convinti sostenitori e attivisti fascisti. è importante ricordare cosa fu concretamente lo squadrismo, cosa comportasse, materialmente, uscire di casa e imbattersi in questi patrioti. (in questo senso il film “la marcia su roma” di dino risi, 1962, è un altro importante documento: qui però il Maestro ha voluto porre l’accento principalmente sul lato comico e macchiettistico e, attraverso questo, arrivare al fatto storico. direi un processo speculare a quello di lussu).
dopo “io sono qui” di balzano, sono approdato a “teoria dell’insurrezione”(1936). qui lussu si interroga su come rovesciare il fascismo. come rovesciarlo concretamente. perciò passa in rassegna le insurrezioni precedenti, analizzandole, cercando di capire quali sono stati i punti di forza e cosa ha portato, nella maggioranza dei casi, al fallimento.
lussu non era comunista. era un antifascista convinto oltre che, si potrebbe dire, un uomo di sinistra. da uomo di sinistra non ignorava i conflitti. era consapevole della loro presenza nella società. riconosceva le classi e i loro interessi contrapposti.
lussu si concentra sulla rivoluzione di ottobre del 1917, in quanto insurrezione riuscita. fra le pagine di questo libro fa chiarezza, districa: non bisogna fare confusione fra insurrezione e rivoluzione trattandole alla stregua di sinonimi. l’insurrezione può essere prodromica alla rivoluzione, ma sono due cose distinte. e l’insurrezione ha le sue regole, i suoi punti di forza. lussu non fa nessuna apologia. analizza. isola i fattori vincenti da quelli belli a dirsi ma inefficaci. non fa mistero della importanza della ritirata, quando occorre e quando la priorità è salvaguardare l’organizzazione degli insorti piuttosto che morire eroicamente. ai fini della insurrezione, morire da eroi, può essere inutile.
leggo queste pagine e penso. penso all’oggi, alla barbarie che ci circonda (e non mi riferisco solo a salvini ma anche e soprattutto a quel che è venuto prima di lui) e alla necessità di insorgere.
il contingente tende a fregarti.
il piano più ampio ti fa respirare