emilio lussu

a me non è che mi freghi molto, ma questo non pare interessare.
mi viene in mente george clooney in “dal tramonto all’alba” (1996) quando dice qualcosa come: “è vero, non mi frega niente di te: mi interessa solo di me, di quel figlio di puttana di mio fratello [quentin tarantino, ndr] e di non essere arrestato”, o qualcosa del genere.
ogni mia presa di distanza da un mondo malato, ma a quanto pare ampiamente accetato, viene presa come stramberia, pigrizia, incomprensibile presa di posizione, privilegi di uno che se lo può permettere.
forse è vero: forse me lo posso permettere, almeno in una certa misura. a volte penso che il potermelo permettere mi obblighi a farlo.

prendo le distanze dal contingente, torno ad un piano più ampio.

dopo il piacevole sconfinamento nella narrativa con “io resto qui” di marco balzano (2018), sono tornato alle mie letture storico-ibrido-saggistiche.
“io resto qui” è un libro che merita. devo dire grazie a mia sorella che me lo ha regalato. oltre alla storia, all’impegno, all’abilità descrittiva, ho apprezzato il finale. è un finale aperto. di quelli che lasciano in sospeso, in cui non tutto finisce bene. alcune storie, alcune vicende, non si chiudono, restano lì, ma non per noncuranza. restano lì perché è la realtà, perché l’autore ha deciso di raccontare una parte di una storia, che è comunque storia a sé stante, che funziona, ha ritmo. questa storia però non è che un pezzo di una più grande: la storia di una comunità montana, nel caso specifico, che affronta la guerra e lo scempio di una grande opera. il resto è il prima e il dopo di quella storia.
i finali aperti mi piacciono: danno la possibilità di immaginare, di astrarsi, di pensare a come potrebbe finire.
c’è tuttavia un equilibrio molto sottile fra una storia non finita e un finale aperto. il chiudere le storie si ha la percezione che a volte venga percepito dagli autori come una esigenza. penso ad un film, “5 pezzi facili” con jack nicholson, 1970. come finisce quel film? tecnicamente in nessun modo. non finisce. il protagonista, nicholson, lascia la moglie e un discreto numero di problemi ad una stazione di servizio. chiede un passaggio ad un camionista, sale sul camion, il camion parte e fine del film. dove va? la moglie cosa fa? lui tornerà? non si sa. ma questo non fa di “5 pezzi facili” un film tirato via. anzi. ne fa una storia profonda, ben raccontata, che narra un pezzo di storia, evocativa e piena di significati. credo che le migliori forme artistiche siano quelle che creano stimoli. non per forza danno la soluzione ai problemi. raccontano la realtà e cercano di dare degli strumenti per poterla interpretare. poi però il compito è del fruitore dell’opera. è lui che deve fare le connessioni. ammiro molto salvatores come regista: sono affezionato a tutti i suoi film, ma “amensia” – pellicola del 2002, divertente, ben girata e che guardo sempre con piacere – è per me il classico esempio di un cinema che ha l’ambizione di iniziare e finire lì. tutto va a posto, in “amnesia”: il buono risolve tutti i suoi problemi senza dover ricorrere a traffici illeciti, i cattivi muoiono, i figli ingrati si devono occupare dei loro genitori ridotti allo stato vegetativo. fine. posso uscire dal cinema (o chiudere il libro) e pensare che quel pezzetto sia autosufficiente, che tutti inizi e finisca lì. non mi porto dietro nulla una volta finita la mera fruizione.

sto leggendo di nuovo emilio lussu (1890 – 1975). ho letto praticamente tutto “un anno sull’altipiano” mentre me ne stavo spaparanzato su una spiaggia del gargano. ormai 3 anni fa. avevo in testa “uomini contro”, film di rosi del 1970 che prende spunto da quel libro. non mi fa mai bene vedere il film prima di leggere il libro. mi toglie la capacità di astrazione. nonostante questo mi sono perso in quelle pagine. avevo letto da poco “cent’anni a nordest – viaggio fra i fantasmi della guera granda” di wu ming 1 e “un anno sull’altipiano” mi sembrava la giusta continuazione. l’assurdità della guerra, concetti come “patria” e “nazione” si collegano a “sacrificio” ed “eroismo” falciando vite per cause che nulla avrebbero a che fare con quei conflitti. l’assurdità della guerra, tutta la sovrastruttura ideologica che la sostiene: una vera montagna di merda.
con lussu mi trovo bene. con lussu non ho quella identificazione totale di chi la pensa in tutto e per tutto come me. lussu è partito per la “guera granda” come volontario. ci credeva. solo dopo si è accorto della allucinazione di massa. lussu non è mai stato comunista. ha sempre rifiutato la rigidità della organizzazione leninista e ha sempre avuto un percorso politico coerente con questa sua visione.
lussu è uomo che stimo profondamente. il coraggio, la determinazione, la perspicacia politica, la capacità di connettere gli eventi è invidiabile. “marcia su roma e dintorni” (1931) è un libro che andrebbe letto nelle scuole. rendendo nuovamente onore alla statura del personaggio, ne ho particolarmente apprezzato l’introduzione. lussu scrive che questo suo libro non vuole essere un saggio nè un opera con velleità storiche. è il suo punto di vista, il suo vissuto, ciò che il suo occhio ha visto quando le squadre fasciste hanno iniziato ad imperversare.
chiaramente E’ un libro storico. quello che lussu ha voluto sottolineare è il suo sottrarsi ai canoni di un libro storico, che non riguardano l’oggettività di un’opera, ma piuttosto tutto il processo di documentazione e verifiche. lussu racconta quello che ha visto. e lo racconta tramite il suo sguardo.
la violenza squadrista, i soldi di agrari e imprenditori a finaziarla, la politica di non intervento da parte delle forze dell’ordine: è la realtà di quegli anni. lussu la racconta come meglio non si potrebbe. c’è forse anche un velo di ironia, specie quando racconta dei personaggi più improbabili della sua città (gente senza arte nè parte che viveva alla giornata ma con una gran voglia di comandare: certe descrizioni mi hanno ricordato molto quello che dicevano di umberto bossi prima che fondasse la lega), divenuti convinti sostenitori e attivisti fascisti. è importante ricordare cosa fu concretamente lo squadrismo, cosa comportasse, materialmente, uscire di casa e imbattersi in questi patrioti. (in questo senso il film “la marcia su roma” di dino risi, 1962, è un altro importante documento: qui però il Maestro ha voluto porre l’accento principalmente sul lato comico e macchiettistico e, attraverso questo, arrivare al fatto storico. direi un processo speculare a quello di lussu).

dopo “io sono qui” di balzano, sono approdato a “teoria dell’insurrezione”(1936). qui lussu si interroga su come rovesciare il fascismo. come rovesciarlo concretamente. perciò passa in rassegna le insurrezioni precedenti, analizzandole, cercando di capire quali sono stati i punti di forza e cosa ha portato, nella maggioranza dei casi, al fallimento.
lussu non era comunista. era un antifascista convinto oltre che, si potrebbe dire, un uomo di sinistra. da uomo di sinistra non ignorava i conflitti. era consapevole della loro presenza nella società. riconosceva le classi e i loro interessi contrapposti.
lussu si concentra sulla rivoluzione di ottobre del 1917, in quanto insurrezione riuscita. fra le pagine di questo libro fa chiarezza, districa: non bisogna fare confusione fra insurrezione e rivoluzione trattandole alla stregua di sinonimi. l’insurrezione può essere prodromica alla rivoluzione, ma sono due cose distinte. e l’insurrezione ha le sue regole, i suoi punti di forza. lussu non fa nessuna apologia. analizza. isola i fattori vincenti da quelli belli a dirsi ma inefficaci. non fa mistero della importanza della ritirata, quando occorre e quando la priorità è salvaguardare l’organizzazione degli insorti piuttosto che morire eroicamente. ai fini della insurrezione, morire da eroi, può essere inutile.

leggo queste pagine e penso. penso all’oggi, alla barbarie che ci circonda (e non mi riferisco solo a salvini ma anche e soprattutto a quel che è venuto prima di lui) e alla necessità di insorgere.

il contingente tende a fregarti.
il piano più ampio ti fa respirare

lead

lunedì sera ho usato il pedale “lead”, invece di “crunch”.

è bello avere un gruppo. e poi ora che i dusters sono rimasti in 4 è tutto più semplice. sono entrato in punta di piedi, non so più quanti anni fa, penso 4 o 5. suonavo già in un altro gruppo. e mi piaceva. ci chiamavamo bsc. era un acronimo a libera interpretazione: ognuno lo poteva leggere come voleva.  i dusters per me erano una palestra, ma non ero molto interessato al loro destino. poi i bsc sono finiti. contestualmente i dusters hanno cambiato formazione: il tastierista, dopo avere avuto un figlio, se ne è andato. il chitarrista solista – non un granché a mio modesto parere – è stato fatto fuori. siamo rimasti in 4. io, batteria, basso, e voce. il cantante scrive belle canzoni quasi tutte in inglese. strimpella anche la chitarra. per forza di cose io mi sono trovato ad essere la prima chitarra. all’inizio non volevo. ho proposto di tirare in mezzo una terza chitarra. “formazione foo fighters” ho detto per convincerli. un altro chitarrista arrivò. non era un granché nemmeno lui e, seppur a fatica, fu fatto fuori. pensai che toccava a me. tanto valeva provarci a diventare la prima chitarra. sono sempre stato un discreto chitarrista ritmico. l’accompagnamento mi è sempre venuto bene. la mano destra è sempre andata da sola. i soli preferivo lasciarli a chi li sapeva fare.

il frinire delle cicale a milano non si può sentire. sole, luce, pantaloncini e maglietta. quel rumore costante e discreto non è un buon sottofondo per il rumore del traffico, dell’amsa che scarica la spazzatura, per un orizzonte fatto di palazzi e cemento. no. non ci sta proprio bene. le cicale sono un ottimo sottofondo per il sole, sì, ma soprattutto per campagna, spazi aperti, per quel paesaggio rude e dolcissimo della bassa maremma o della provenza. sta bene con amache che oscillano per il vento leggero, con costumi stesi dopo una giornata di mare, asciugamani irrigiti dal sale

è un controsenso, qualcosa che stride. come ascoltare rossini guardando i the best of di lenny bottai.

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a mia figlia non sembra interessare questo controsenso. si sveglia con il sorriso, emette versi vari, sempre più articolati e allegri. ci scambiamo parole e versi mentre la cambio, la vesto, le do da bere. osserva tutto mentre con il passeggino la porto al nido. sorride mentre vede altri bambini giocare, sorride quando la sua maestra le va incontro.

ma quelli che sanno fare i soli come hanno imparato? provando e riprovando. ognuno ha le sue inclinazioni e alcune cose verso le quali è particolarmente portato. la epiphone les paul black beauty chiamava i soli. quel manico perfetto e pesante, le corde così ben messe. veniva voglia di buttarsi in fraseggi alla keith richards.

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e così ho fatto. mi sono studiato un po’ di scale, ho fatto esercizio. la chitarra da questo punto di vista è uno strumento un po’ infame. provi e riprovi. ti sembra di essere sempre allo stesso punto. poi un giorno, senza preavviso, riesci a fare quello che cercavi di fare. non lo fai perfettamente, ma ci riesci. sei salito di un gradino.

lunedì c’erano le prove. la pedaliera della sala prove offre varie opzioni. io normalmente uso il clean, pulito. se ho dei soli o delle parti da sottolineare in modo grezzo accendo il crunch. lunedì però ho provato il lead. abbiamo iniziato con l’unica cover che facciamo. “dead flowers” dei rolling stones. iniziamo quasi sempre con quella. ci serve per provare i volumi. dopo due strofe c’è il solo. il mio solo. a differenza degli altri pezzi originali dei dusters, di cui ho dovuto imparare i soli che faceva il vecchio chitarrista, su “dead flowers” ho carta bianca. posso fare quello che voglio.

la seconda strofa sta finendo. a breve tocca a me. “rilassati e vai tranquillo”, mi ripeto ogni volta che sta per arrivare il mio momento. il rock è questo: rilassarsi e andare. con lo spirito giusto, qualcosa di buono solitamente accade.

faccio il solo, poi ultima strofa e il pezzo chiude. guardo il batterista per capire quando cade la nota finale. chiudiamo. il bassista mi fa ok con il pollice, il cantante fa lo stesso.

mi sento bene.

è bello avere un gruppo.

di fronte al mare, marinai perduti

quando c’è questo clima, vento e cielo limpido, aria fresca che non si soffoca, pare quasi più difficile del solito restare a milano.

d’accordo, milano: non mi sta mai bene niente, quando sono con te. se fa freddo perché fa freddo, se c’è nebbia perchè non si vede nulla, se è grigio perché l’umore mi scende sotto i piedi. ora sei ventosa, fresca, soleggiata. dovrei commuovermi? non riesco a perdonarti questo tuo essere lontana dal mare, dai posti che mi piacciono. a volte sembra che tu mi dica che sei dove sei, che non è che puoi spostarti. se non ti piaccio, vattene. e avresti pure ragione. ho preferito stare qui ed insultarti. ora preferisco ignorarti.

ti ho ignorata anche stamattina. ho portato la moto dal meccanico, che è rimasto quello di dove vivevo prima. una vasca, come si dice. specie con i mezzi pubblici. però di lui mi fido e per fortuna il mio v-strom ha bisogno di una controllata all’anno. di solito non di più. torno nella zona dove ho vissuto circa 30 anni. anche quella zona, vicina al centro, l’ho odiata. bella zona, ma pur sempre a milano.

arrivo, gli lascio la moto. ci rivediamo nel tardo pomeriggio, mi dice. ok, va bene. oggi non ho molto da fare. lasciata la moto ridivento pedone. dipendo dall’atm ora. cerco un’auto enjoy. nulla. arrivo in piazza 5 giornate. stanno facendo dei lavori lungo corso XXII marzo e corso di porta vittoria. sembra che i tram qui non passino più di qui. poco male. i tram che passano da qui non mi portano a casa. se non cambiando in centro. preferisco la linea 16. tram di quelli lunghi che parte più o meno dal mercato ortofrutticolo e arriva fino a san siro, dall’altra parte della città. mi sta bene. passa vicino a casa mia, non devo cambiare e non c’è mai nessuno sopra. certo, ci mette un po’. ma ho il mio fido zaino con dentro un libro di izzo, “marinai perduti”. me lo ha regalato la mia amica luana. i libri di izzo sono intrisi di mare, sole, vita, filosofia. una delle mie citazioni preferite è sua: “davanti al mare la felicità è un’idea semplice”.  tornando a milano si potrebbe dire che lontano dal mare la felicità è un’idea complicata. infatti così è.

“marinai perduti” mi ha preso. c’è un cargo fermo nel porto di marsiglia. non può ripartire perché l’armatore è pieno di debiti e la nave è pignorata. l’equipaggio è ridotto all’osso. uomini di mare che non navigano non possono fare altro che ricordare quando navigavano. i porti, le avventure, le bevute, le donne, i casini.

cammino fino a via bergamo e aspetto il 16 che dopo 3 minuti arriva sferragliando. come sempre mezzo vuoto. non guardo milano che scorre fuori dai finestrini, nonostante passi davanti al liceo che ho frequentato, davanti a casa di un mio vecchio amico con cui mi sono preso la prima sbornia della mia vita e vicino a tanti altri posti pieni di ricordi. mi lascio prendere dalle pagine del libro. guardo fuori di rado solo per capire a che punto sono del tragitto

quanto mare che c’è in questo libro. che bravo izzo. e quanto c’è della mia amica luana fra queste pagine. credo che per racchiudere la nostra amicizia basti ricordare il nostro rituale preferito: d’estate, quando siamo insieme al mare, ci piace camminare sulla spiaggia. non importa dove siamo. se c’è una spiaggia abbastanza lunga e spaziosa, noi la percorriamo. i nostri discorsi hanno bisogno di spazio. e di orizzonti ampi.

in queste pagine trovo lei, il mare, il caldo, i suoi capelli nerissimi e le nostre domande sulla vita. mi piacerebbe fossimo vicini, ma viviamo in due città diverse. c’è molto mare fra noi.

alzo lo sguardo. fuori dal finestrino del tram numero 16 inizia a scorrere la zona dove vivo ora. finisco il capitolo e rimetto il libro nello zaino.

scendo dal tram alla mia fermata.

c’è un piacevole vento fresco e il sole illumina tutto.

questi giorni sul mare sono i più belli: il sole scalda senza bruciare, il mare è fresco, il vento porta odori di alghe, cibo, frammenti di discorsi e di risate.

l’ideale per passeggiare lungo la battigia.

 

 

 

 

minacce accettabili

mattina presto. ho guardato la spalla di uno dei tanti libri che affollano il mio comodino. avevo deciso che lì ci sarebbero rimasti solo quelli ancora da leggere. gli altri, i già letti, nella libreria in sala.regola durata poco.
tra i vari c’è un libro di banksy, regalo di giorgio e roberta (amici, fratelli, persone che mi fanno pensare a questa canzone di brusco). il titolo del libro, “siete una minaccia di livello accettabile”, racchiude il concetto: se nessuno vi disturba, allora vuol dire che siete una minaccia di livello accettabile. per il potere, per i potenti, per l’ordine costituito: non rappresentate qualcosa che possa rovesciarli.

concetto tanto chiaro quanto avvilente. è da anni che, a me, lasciano stare. si vede che non sto facendo granché. però, nonostante il caldo, nonostante la sudata nel letto, l’occhio a mezz’asta e le gambe molli, sono riuscito a fare un collegamento. gente che andava in manifestazione – quella del 16 giugno a roma – fotografata con la carta di identità in mano. in molti dicono che non c’è nessuna novità, niente per cui scandalizzarsi. normali controlli. la mia modesta esperienza in questa faccende però, mi fa pensare a controlli analoghi solo per manifestazioni della cosidetta “area antagonista”. onestamente, avendo partecipato a varie manifestazioni con vari livelli di conflittualità, controlli del genere li ricordo solo quando frequentavo l’area della autonomia (o quello che ai miei tempi ne rimaneva).

è possibile che quelle persone dirette a roma per una manifestazione avente come slogan “prima gli sfruttati”, si stessero avvicinando ad un livello di minaccia non più molto accettabile. del resto andare contro la narrazione nazionale è sempre tanto rischioso quanto dovuto.

penso a banksy, a mia figlia che devo accompagnare al nido, a quelli che sono andati a roma, alla giornata calda e a questo primo giorno di estate.

 

domenica di maggio

bella la domenica di maggio. c’è silenzio, una tenda bianca ondeggia per quel poco di corrente che attraversa la casa. sono uscito a fare due passi, a incontrare mia mamma in un bar qui vicino. era con una sua amica. ci teneva a farle conoscere la mia piccola. così siamo andati. sosta dal tabaccaio che esponeva sacchettii di marijuana. ora la si vende così, liberamente. pare un sogno. sembra che sia molto leggera, che il thc contenuto sia basso. non oltre un tot.
mia figlia si sporge dal passeggino, si aggrappa alla sbarra di protezione per sporgersi e non perdersi nulla: alberi, foglie, cani, macchine parcheggiate, moto, gente che le sorride e lei ricambia.

stamattina ho letto qualcosa su camillo guglielmi, uomo dello stato, agente segreto. secondo “il fatto quotidiano”: “colonnello responsabile dei reparti di sbarco e assalto di Capo Marrargiu”. stesso posto dove pare che sia stato addestrato leonardi, il capo scorta di moro.
sono passati 40 anni da quella vicenda. se ne continua a parlare, ma pare che nemmeno in occasione del 40ennale si riesca ad affrontare l’argomento da una visuale diversa. come è che in via fani moro sia sopravvissuto a quella pioggia di piombo? come mai c’erano uomini dei servizi segreti in via fani? ma poi chi c’era effettivamente in via fani? e poi ancora, moro portato via non in quella via ma qualche decina di minuti prima, mentre, come ogni mattina, si trovava in chiesa a pregare. portato via da un “uomo dello stato”, uno di cui evidentemente si fidava. e la scorta? è andata in via fani senza moro ed è stata sterminata ugualmente?

ho letto molte cose sulla questione. sono affascinato dalle varie teorie, anche dalle più bizzarre. sono interessanti da leggere e poi sviluppano l’intelligenza, quando si passa a smontarle. mi intrigano come mi intirgano i video sul tubo che parlano del falso sbarco sulla luna. sono sempre interessato alle versioni alternative. servono sempre. a volte insinuano il dubbio, a volte confermano le proprie teorie. per capirne la validità devi mettere in campo le tue conoscenze e la tua capacità critica. anche per le più astruse; anzi: forse queste ultime sono quelle che richiedono il maggior lavoro.

accendo la tv. su raisport c’è il collegamento con il giro d’italia. me lo guardo. forse non dovrei, forse dovrei dire la mia sulla partenza del giro da israele. c’è sempre questa irritante argomentazione da parte dei sostenitori di israele. un bias ricorrente. l’identificazione di uno stato criminale con una religione. se ce l’hai con israele ce l’hai con gli ebrei. quindi sei antisemita e, conseguentemente, un po’ nazista. è una connessione che rifiuto. che serve a portare il discorso altrove. un altrove in cui i margini di manovra sono scarsissimi. e non ci voglio andare. resto saldamente nello spazio #noborders, antinazionalista, che ragiona per condizioni trasversali alle appartenenze religiose, etniche, nazionalistiche. se questa identificazione si innesca non è un problema mio. continuo a condannare l’imperialismo e il colonalismo. le religioni mi sono indifferenti. tutte. solidale e complice di chi resiste. così come me tante persone. molte – ma pare che la cosa debba rimanere nascosta – vivono proprio in israele. tipo questi e questi altri

qui da noi, fra i tanti

ho letto che i palestinesi, durante il rapimento moro, non erano per nulla favorevoli alla uccisione dell’ostaggio. con le br c’erano stati vari contatti, scambi di armi e di prospettive. ma in questo caso le br avevano rapito un politico italiano che aveva sempre mantenuto una politica filo araba. suscitando, chiaramente, i malumori degli usa.

quando rapirono moro avevo un anno. mia mamma percepì che qualcosa nell’aria era esploso. sirene, macchine che correvano su e giù per la città, elicotteri in volo e quell’aria di tensione tanto indescrivibile quanto evidentissima per chi la sa respirare.
mi sono fatto una mia idea negli anni. idea partigiana, ma la obiettività è una illusione. le br erano un gruppo rivoluzionario molto ben organizzato. il suo obiettivo: essere una avanguardia, scatenare contraddizioni all’interno del sistema capitalistico, proporre una forza alternativa con un crescente potere offensivo. secondo i br non era più tempo di difendere la classe operaia dagli attacci dei crumiri e dei padroni. bisognava contrattaccare. e la cosa funzionò. almeno sulle prime, mi sono fatto l’idea che funzionò. azioni dimostrative, macchine di capi e capetti di fabbrica bruciate, rapimenti lampo a dimostrare che chiunque è colpibile. però il seguito è rimasto scarso, o quantomeno sottotraccia. senza dubbio c’era una vasta parte del movimento e di tutte quelle realtà alternative che approvava quanto veniva fatto dai brigatisti. ma da lì a scatenare un processo rivoluzionario il passo era ancora molto molto lungo.
la reazione faceva il suo, pci compreso. alzare il livello dello scontro, rapire il presidente della dc, voleva dire una guerra a tutto campo. la reazione non si fa mai problemi. sacrifica chiunque e qualunque cosa pur di ristabilire l’ordine. anzi: se dice bene non solo ristabilisce l’ordine, ma riesce a riportare un ordine persino più soffocante di quello precedente. tipo gli anni ’80 che sarebbero seguiti, il riflusso, il disimpegno, la fine della politica dal basso.

aldo moro non era benvoluto. non era ben vista la sua apertura al pci, anche se ormai era il partito della conservazione (nemmeno 12 mesi dopo e il pci contribuì all’arresto di centinaia di compagni avvallando il “teorema calogero“)

insomma: moro morto faceva comodo al potere. moro vivo a questo punto sarebbe servito alle br, ma non si poteva lasciarlo libero senza nulla in cambio. almeno così la pensava la maggior parte dell’esecutivo br.

penso che la storia sia tutta qui. che poi si siano attivati poteri segreti, figure a cavallo tra stato e criminalità, servizi segreti, eminenze grigie, sì, certo, senza dubbio.
è assolutamente necessario però, per la narrazione nazionale, nascondere il fatto che un movimento rivoluzionario autonomo, per più di 10 anni, sia riuscito a portare a termine le sue azioni, il suo disegno, senza che ci fossero influenze esterne. non è accettabile che un gruppo di comunisti sia stato in grado di fare ciò. serve assolutamente dire che erano al servizio di qualcuno, che qualuno li pagava, qualcun altro li guidava. serviva alla destra, ma serviva soprattutto al pci. le br e la lotta armata in generale, stavano a ricordare l’esistenza di una conflittualità, sociale prima che politica, che il pci, per le sue aspirazioni governative, non poteva tenere in conto.

al netto degli errori, delle uccisioni, delle porcate come ammazzare guido rossa, delle valutazioni sbagliate, di tragiche ingenuità, io penso che questi fossero comunisti. sono andati al nocciolo del problema, pur uscendone con una strategia perdente.

è bella la domenica di maggio. le tende svolazzano.

era de maggio

la mattina, sotto casa mia, le macchine girano lente. cercano un parcheggio. si infilano nella via chiusa dove abito. il più delle volte fanno marcia indietro e cercano altrove.
le parole di markus rediker e della sua “storia sociale della pirateria” mi ronzano in testa. penso ai marinai di metà settecento, alle stratificazioni sociali, alla tratta degli schiavi. ieri sera ho letto che erano previsti indennizzi per ogni schiavo morto durante la traversata. per i marinai no. le malattie erano molto frequenti, specie per chi si avventurava lungo le rotte africane. febbri, scorbuto e altre infezioni, decimavano gli equipaggi. ma se uno schiavo morto durante il viaggio veniva rimborsato, un marinaio morto no. questa cosa mi ha fatto riflettere sul fatto che la schiavitù è un concetto più ampio di quanto si possa pensare a prima vista. lo schiavo è senza diritti, ma rappresenta un valore, un piccolo capitale, quindi c’è un corrispettivo in denaro se muore. il marinaio è forza lavoro. non è ufficialmente schiavo, ma non ha diritti. se muore, non succede nulla. solo lo “splash” del suo corpo gettato in acqua. in fondo quale è la differenza fra i due? il marinaio può scegliere di non imbarcarsi, certo, opportunità che lo schiavo non ha. viste però le condizioni della popolazione inglese durante il XVIII secolo, nemmeno il marinaio aveva molta scelta.
se ho capito il canovaccio del libro a breve si arriverà alla scelta della pirateria come soluzione, come ribellione allo stato di cose presenti.

tiro su la tapparella, mi affaccio al balcone. gira un po’ di polline. la giornata sembra tersa, non eccessivamente calda. mia figlia mi sorride e si stropiccia gli occhi. è pronta. o almeno: lei sarebbe pronta. non le importa molto di venire cambiata e vestita. mi dedico a lei: le racconto che solo per lei faccio lo sforzo di dire qualche parola la mattina. le canticchio qualcosa mentre la preparo. sorride.

torno verso casa. al telefono mia mamma mi dice che forse faranno un governo con lega e m5s. a me cambia poco. la situazione è tragica, ma cambia poco. non penso che la prospettiva pd m5s mi avrebbe tranquillizzato. vorrei allungarmi fino all’edicola, per prendere “il manifesto”, ma oggi è lunedì. non esce.

torno a casa. vedo un paio di scritti salvati ma non pubblicati. non ho voglia di metterci mano. mi capita spesso di rileggere cose anche buone, ma troppo legate ad un momento, ad una giornata, ad un fatto pubblico (nello specifico il 25 aprile) e mi riesce difficile riadattarlo.
torno a casa e metto su una compilation di blues “live and loud”. si parte con bonamassa. difficilmente potrebbe essere altrimenti. bonamassa non mi fa simpatia, ma trovo che ci sia qualcosa di invidiabile nel suo modo di suonare. sempre pulito, chiaro, diretto. il suo suono è sempre quello giusto: se non ricordo male suo padre aveva un negozio di chitarre. quindi anche amplificatori. deve avenrne viste e sentite parecchie. il talento ha fatto il resto.

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io, alla chitarra, cerco di mettercela tutta
ieri sera chiacchieravo con luisa. il giorno prima avevamo fatto le nostre due ore di prova. dopo una serie di entrate e uscite dal gruppo, mi sono trovato ad essere prima chitarra. il che vuol dire che non basta più fare “dranga dranga” sugli accordi. bisogna trovare riff, note interessanti, imparare i soli che suonava il chitarrista solista che ora non c’è più. intrigante, interessante, stimolante, ma a volte mi rendo conto che non è il mio. ma mi piacerebbe che lo diventasse.

“era de maggio”. la canticchiava a volte mio papà. lentamente, senza un tempo definito, così come gli veniva.

è maggio. e mi piace.

mettiamoci al lavoro.

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scarta 2

da una piattaforma all’altra. continuo qui. o almeno ci provo. ringrazio tiscali per questi anni. ringrazio quelli che sono passati e quelli che hanno lasciato un segno. anni belli, anni tristi, gioiosi e sereni, incazzati e spensierati.

insomma, per chi vuole sono qui

hasta siempre

tommi