terza dose

Dormirei sempre un po’ di più la mattina. Il calore del letto e la mente che si risveglia, sono sensazioni che avrebbero bisogno di tempo. Non ce n’è molto però. Mi alzo. Dose di caffè, lavata sommaria e via a portare i giovani a scuola. Il freddo lo avevo già sentito sul balcone, alla prima sigaretta della giornata. Un freddo che sopporti perché il caldo della casa è a pochi passi. Allora tiri ancora un po’ dalla sigaretta, ti guardi intorno: la tua macchina parcheggiata lì sotto, il portinaio che spazza la strada dalle ultime foglie morte della stagione, anche lui con la sigaretta in bocca. Sembra una versione urbana di Slash, ma le similitudini si fermano alla sigaretta in bocca sempre presente.

Usciamo dal portone, siamo in strada. Non so bene perché nella piazza dove vivo il freddo e il ghiaccio non si fermano molto sui tetti delle case e sui vetri delle macchine. Ma basta attraversare la circonvallazione, camminare lungo i marciapiedi ampi e spogli che portano al plesso scolastico per avere tutto un altro scenario. L’asfalto è bianco, tranne che per i segni lasciati dalle ruote delle macchine. Nella zona del distributore di benzina davanti al quale quotidianamente passiamo – commentando di volta in volta le nuove spazzole dell’auto lavaggio, il sistema di rifornimento quando arriva la cisterna del carburante, alcune macchine dall’aspetto sportivo ferme alla pompa – il bianco della brina è ovunque. Così come sulle auto in sosta lì vicino: completamente coperte da uno strato di bianco gelato nemmeno troppo sottile.

Bho, penso. Sarà che la nostra piazza è più riparata mentre lì invece è tutto più esposto alle intemperie.

Torno a casa. Mi lavo meglio, mi metto un altro maglione e prendo le chiavi della moto. Devo andare a fare la terza dose, al palazzo delle Scintille. Non è lontano da casa mia, ma è una di quelle distanze che a piedi sfiorano la mezz’ora. In moto 10 minuti prendendosela comoda.

Arrivo al garage, accendo la moto e aspetto. Aspetto che il motore si scaldi, che tenga il minimo senza l’aiuto della mia mano destra sul gas. Vecchia Suzuki da 75mila chilometri ed oltre: funziona a meraviglia ma, da attempata signora, ha bisogno dei suoi tempi.

Mentre il motore si sveglia penso se ci sarà coda, casino, disservizi, rivolte, manifestazioni no vax.

Esco dal garage. La mia moto ha una scia di fumo bianco che la accompagna. Almeno finché avrò una sola tacca su tre di temperatura del motore. Guido piano, temo un po’ quei rimasugli di bianco scivoloso sull’asfalto.

Arrivo a destinazione. Parcheggio proprio davanti, sarebbe vietato, ma una selva di moto e motorini mi fa andare con la massa.

Via il casco, i guanti, il sottocasco. Blocco la moto e mi dirigo verso un alpino attempato che fa sfoggio della sua piuma sul berretto. Non ho nessuno davanti, saluto e presento il mio smartphone con l’sms della convocazione. L’alpino non vede bene, c’è un riflesso sullo schermo. Vorrebbe prenderselo ma poi si rende conto che in tempi di pandemia non è una buona idea. Così inizia a muovere la mano come se lo tenesse nel palmo. Io seguo i suoi movimenti con il telefono effettivamente in mano.

“sì, prego, si accomodi”.

Cammino seguendo le frecce. Entro in una specie di enorme hangar. Attraverso delle porte fatte a strisce di plastica spessa che penzolano dall’alto. Tipo quelle fuori dagli alimentari quando ero ragazzino, ma queste sono molto più grandi. Mi viene in mentre il film “Cassandra Crossing” o uno con Dustin Hoffman che mi pare si intitoli “Virus”.

Cassandra Crossing – 1976

Dentro è tutto molto tranquillo. Nessun segnale della fine del mondo. Una infermiera mi manda verso un box, tipo quello delle fiere commerciali. Dentro c’è un medico. Capelli bianchi, occhi chiari e aria rassicurante. Mi fa cenno di accomodarmi, scannerizza la mia tessera sanitaria, mi chiede se per i due precedenti vaccini sono stato male e che vaccini ho fatto

“Moderna” dico

“beh oggi farà Pfizer”

Sorrido come a dire: se me lo dice lei.

Lui sorride come se avesse capito.

Lo saluto e vengo indirizzato verso un altro corridoio con tanti box. Il mio è il 5. Ad attendermi una infermiera mora e bassa. Con fare gentile mi dice di togliermi il maglione. Sotto però ho una maglietta a maniche lunghe abbastanza aderente. Provo a tirare su la manica fino alla spalla ma è impossibile.

“credo se la debba togliere”

“già – rispondo – questa mattina non ci avevo pensato, vestendomi”

Me la sfilo. Resto nudo dalla vita in su. Lei mi guarda, io mi siedo ma improvvisamente penso che non sia una buona idea appoggiare la schiena nuda su una sedia dove è passata mezza Milano. Resto in una posizione di mezzo.

Lei mi dice:

“ora però si deve rilassare. Rilassi soprattutto il braccio. Facciamo sul sinistro, va bene?”

Mi rilasso. La puntura quasi non la sento. Non c’è nemmeno confronto con la macellaia che mi iniettò la seconda dose di Moderna al Pio Albergo Trivulzio, a luglio.

Mi indicano di accomodarmi in una grande sala con le sedie distanziate.

palazzo delle Scintille, Milano

Un signore con la pettorina “volontario Milano” e non so cos’altro, mi dà un bigliettino. Sopra c’è stampato un orario: le 11:07. Bisogna attendere 15 minuti prima di uscire: magari stramazzi subito dopo l’iniezione e allora è meglio che tu stia ancora un po’ dentro.

Di fatto è l’unica attesa oggi.

Dalla tasca interna del mio giaccone – poco motociclistico, ma molto caldo – prendo il libro che mi sono portato.

Fabrizio Barca, “Disuguaglianze Conflitto Sviluppo”. Regalo di mia mamma. L’ho iniziato con un certo scetticismo. Gente che ha creduto nel Pd, meglio tenere la distanza di sicurezza. Di mia mamma però mi fido: nonostante le nostre idee politiche non siano esattamente sovrapponibili, condividiamo una impostazione di fondo. Lei è sempre stata più per la ricerca della sinistra all’interno delle istituzioni (da qui il suo apprezzamento per Barca), io per la ricerca della sinistra al di fuori. Ci siamo scambiati dei testi e direi che abbiamo sempre apprezzato i contributi reciproci.

Barca ha il merito di andare a fondo delle cose. Vede il conflitto lungo linee di frattura a mio avviso corrette. È un libro denso, senza dubbio. Riconosco le sue riflessioni come base per una eventuale discussione (e continuo a chiedermi cosa possa avere a che fare un pensiero del genere con il Pd)

Nella prima parte del libro Barca parla di pandemia, vaccini e case farmaceutiche. Parla di equilibrare i brevetti e la tutela della proprietà intellettuale, con la necessità di libera fruizione delle scoperte scientifiche. Fa riferimento all’accordo Trips del ’94 (accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale) sottolineando come sia eccessivamente sbilanciato verso i primi, di fatto privando la collettività di poter fruire delle scoperte scientifiche (fra cui, ovviamente, i vaccini).

Inoltre la logica degli utili che guida le case farmaceutiche fa sì che non vengano prodotti vaccini per malattie presenti in paesi che non potrebbero comprarseli, così come non vengono prodotti vaccini per malattie che colpiscono solo una parte marginale della popolazione mondiale.

Venendo a noi, all’Italia e all’occidente, abbiamo subito questa logica nella misura in cui – sempre per l’idea degli utili – non viene fatta una ricerca costante, ma le risorse vengono attivate quando il problema è ormai lampante, la pandemia è certa. Solo quando si ha la certezza di vendere i vaccini, allora ci si attiva. Per questo quello che ci stanno inoculando non lo chiamerei propriamente vaccino, ma più “cura”. Onestamente non credo sia nociva, non penso che ci ammazzerà tutti. Certo è che però si tratta di una grande sperimentazione, sviluppata anche molto velocemente, vista la situazione degli ultimi – quasi – due anni. Penso che forse un lavoro di ricerca costante e non attivato necessariamente da una emergenza sanitaria mondiale, avrebbe potuto creare un prodotto più mirato.

Mentre faccio questi pensieri si sono fatte le 11:09.

Esco, risalgo in moto e vado verso casa.

Vorrei prenderla larga, girare un po’. Raggiungere almeno le 3 tacche di temperatura del motore. Però fa freddo. Parecchio. E poi, a dirla tutta, le cose da fare a casa non mi mancano.

Allungo un po’ il tragitto del ritorno, ma non di troppo.

Guido e penso. Tutti i miei sensi sono allertati: ho amici e coetanei che con la terza dose si sono fatti una notte d’inferno, o pomeriggi divanati mezzi morti. Io al momento sto bene, ma so che è presto per cantare vittoria.

Arrivato a casa mi chiedono: come stai? Bene, grazie. Per ora bene.

Apro una testata on line, una delle più mainstream. Non mi interessano le notizie che riporta, mi interessa cosa sta raccontando al paese, quali saranno le prossime emergenze, i prossimi nemici.

Sulle prime nessun indizio – l’emergenza che c’è evidentemente basta e avanza – ma grandi bordate sui secondi. I no vax. Ricordo di aver letto un virgolettato in cui, il premier e il ministro della salute, dicevano: la colpa di questa situazione è solo loro.

Con tre dosi di vaccino in corpo mi pare ovvio che le mie scelte siano diverse da quelle di chi ha deciso di non farsene nemmeno una. Nonostante questo trovo che il messaggio sia fuorviante, oppure perfettamente calzante, se il discorso è: troviamo un nemico, perché così parliamo di quello e non delle mancanze strutturali del nostro sistema. La fragilità del sistema sanitario, smantellato secondo un piano preciso, le mancate chiusure di quasi due anni fa in nome del profitto, l’ipocrisia del dire “chiudetevi in casa e basta”, come se fossimo tutti nella stessa condizione, con gli stessi metri quadri a disposizione, con lo stesso numero di device pro capite a disposizione.

La grande narrazione disturbata da chi si ostinava a non voler uscire solo per lavorare o fare acquisti. Da chi, tipo me, portava ogni due giorni fuori la figlia fino all’edicola, o fino al parchetto recintato, giusto per cambiare aria.

Senza dubbio ci sono state condotte poco intelligenti di singoli o di gruppi, ma paragonarle alle responsabilità sistemiche di questo stato e di questo modo di produrre è quantomeno ridicolo. Come può essere messo sullo stesso piano un runner che magari non rispetta la distanza massima consentita dalla propria abitazione per allenarsi, con una sanità che opta per i grandi agglomerati curativi – e di profitto – al posto della medicina territoriale (ora che ci penso Gallera è riuscito ad accollarsi entrambe le responsabilità).

Il caos che si è generato durante la prima ondata ha dimostrato la sostanza di un sistema iniquo, che non conosce il concetto di collettività.

Ma c’era l’emergenza, ogni voce critica era responsabile o, nel migliore dei casi, non portava rispetto a tutte quelle persone decedute.

Un racconto assurdo, distopico. Un racconto del Male.

Poi in fretta e furia sono arrivati i vaccini. Molto in fretta. Normale che parte della popolazione, abbandonata e colpevolizzata durante i vari lockdown, non si sia fidata, abbia sentito puzzo di bruciato e, privi di riferimenti e di schemi cognitivi ed interpretativi, sia partita per la tangente del 5g, degli alieni in combutta con i rettiliani.

Questo serviva: una massa ignorante e cafona a cui dare la colpa di tutto. E se massa non era e non è – stando ai numeri dei vaccinati, direi che è una minoranza abbastanza ristretta – allora tale la si fa diventare. Raccontando di pazienti oncologici che non si possono curare per colpa dei no vax, dei parchi in cui non possiamo andare per colpa dei no vax e di tutte le brutture che stiamo vivendo per colpa dei no vax.

Che poi no vax non vuole dire niente. Ma piace molto mettere un “no” davanti, come a dividere gli evoluti dai primitivi. Il “no” che rifiuta il progresso, la scienza e la conoscenza.

La linea di frattura da dare in pasto al grande pubblico se non c’è te la inventi. Tanto di testate prodighe nello spacciarla ne trovi. Ci sono quasi tutte.

No vax non vuol dire nulla perché butta in un unico calderone chi non si è vaccinato per diffidenza non circostanziata, chi perché ha scelto un percorso di vita senza medicine e con rimedi naturali, chi si è vaccinato per tutte le malattie previste ma non per questa, chi non si è mai vaccinato per nulla, chi, per patologie personali, non può vaccinarsi (ho la sensazione che di quest’ultima casistica non avremo mai un quadro completo).

E allora mi viene il vomito, mi fa schifo pensare a questo capovolgimento di responsabilità, a questo raccontare una realtà che funziona solo se vista attraverso una determinata inquadratura, data e indiscutibile.

“Don’t hate the media. Become the media”

basta allargare un po’ per vedere meglio. Per vedere altro.

Come stai?, mi chiede la mia compagna mentre siamo a letto a leggere.

Bene grazie. Per ora tutto bene.