infinito

Veda, Casaubon, anche il Pendolo è un falso profeta. Lei lo guarda, pensa che sia l’unico punto fermo nel cosmo, ma se lo stacca dalla volta del Conservatoire e va ad appenderlo in un bordello funziona lo stesso. Ci sono altri pendoli, uno è a New York, al palazzo dell’ONU, un altro a San Francisco, al museo della scienza, e chissà quanti ancora. Il Pendolo di Foucault sta fermo con la terra che gli gira sotto in qualsiasi posto si trovi. Ogni punto dell’universo è un punto fermo, basta attaccarci il Pendolo.”

Dio è in ogni luogo?

In un certo senso sì. Per questo il Pendolo mi disturba. Mi promette l’infinito ma lascia a me la responsabilità di decidere dove voglio averlo.”

“il pendolo di Foucault” – Umberto Eco

Mi fa ridere quello che è successo. Sognarti e poi buttare via la maglietta che mi desti, circa 25 anni fa. Non i “15 anni in meno” di Guccini. La nostra storia ne ha 10 di più. Ma non è tanto questo; lo so che è passato tanto tempo: me ne accorgo se penso alla persona che ero. Solo vagamente la riconosco. E’ proprio la concomitanza delle due cose a farmi ridere.

Il sogno era semplice: io e te che chiacchieravamo. Sapevamo degli anni passati, ma eravamo noi due di allora. Tu, identica. Io penso anche: una barba molto più rada ma sicuramente più scura. Ridevamo, parlavamo attraverso i vari “ti ricordi quella volta che…?”. Ho sentito anche il tuo corpo. In un abbraccio onirico me lo sono ricordato: esile, non tanto alto, piacevole. Era un’abbraccio come quello che ci siamo dati ad un binario della Stazione Centrale di Milano. Faceva caldo: tu mi avevi lasciato e io mi ero innamorato di un’altra. Non potevi farci nulla, ma mi sembrava che ti dispiacesse questo finale. Dispiaceva pure a me e volevo vederti stare bene, però stavo a mille in quei giorni. Il mio nuovo amore mi stava aspettando a casa sua, ma ci tenevo a salutarti.

La maglietta me la desti sempre ad un binario del treno, ma stavolta nella tua città (gli amori a distanza spesso puzzano un po’ di FS). Era tua, ma era troppo grande, oppure non ti piaceva, non ricordo. Me la desti, la presi. Maglietta bianca con davanti una frase di Bob Marley: “Stand up for your right”. Tuo padre militare mi chiese cosa ci fosse scritto. Glielo dissi. Rispose: “dei doveri non parla?”. Non in questa canzone, risposi, ma la trovai una uscita in linea con il personaggio.

La maglietta mi piaceva e me la mettevo spesso. Certo, pur riconoscendo la radicalità di Marley, preferivo magliette con il Che, con Lenin o con frasi di lotta più esplicite, meno conosciute. Però mi piaceva.

Negli ultimi anni era diventata una maeglietta per dormire, solo che, non so come, ha iniziato a sbrindellarsi sulla schiena. Buchi tondi, precisi, non sfilacciati. Variavano solo per dimensione. Per quanto le magliette per dormire non debbano essere perfettamente in ordine – ma nemmeno le altre in fondo – quella era un po’ troppo. Una mattina, mentre vagavo per casa appena sveglio, una amica mi chiese: “cosa è successo a quella maglietta?”. Mi girai prendendone un lembo per controllare, visto che non conoscevo o non ricordavo quel difetto. Risposi: “ahhh….sai cosa è successo? L’ho messa una sera che suonavo con il gruppo…e sai…le fans!”. L’amica mi guardò e in una frazione di secondo analizzò la mia risposta, per rendersi subito contro della cazzata che avevo sparato.

Il mio armadio delle magliette sembrava bombardato. Dovevo mettere ordine, così ieri ho iniziato a piegarle e ad ordinarle. Non facile la classificazione. Se ho la categoria “politica” e la categoria “gruppi musicali”, una maglietta dei Rage Against the Machine o dei 99 Posse, dove la metto? Penso sia il fatto politico quello preponderante, quello senza il quale questi gruppi non sarebbero nati, o forse sarebbero diversi da come sono. Mettendo ordine è saltato fuori Bob Marley. Ho raccontato la storia di quella maglietta alla mia compagna che, dopo aver ascoltato tutto – commenti militari compresi, storcendo il naso – , mi ha detto che avremmo potuto metterla sottovetro. Non mi pare una maglietta così bella, ho risposto. Allora buttala!

L’idea di buttarla mi ronzava in testa da un po’, ma solo ieri l’ho messa in pratica. La mattina dopo averti sognata e, seppur possa sembrare il contrario, la connessione fra le due cose mi si è svelata solo dopo averla gettata.

Lasciarsi era nell’ordine delle cose. Secondo me lo era anche per te, che vaneggiavi di matrimonio e figli (e avevi 17 anni quando ti ho conosciuta!). A me sulle prime il nostro rapporto piaceva, ma non mi facevo molte domande. Io di anni ne avevo 18-quasi 19. Una differenza non da poco a quella età. Primo ed unico, dicevi di me. Forse mi facevi tenerezza quando facevi così. In un certo senso però ne ero anche seccato. Non avevo ancora 20 anni e stavo bene con te. A me bastava. A te anche ma, forse per l’educazione, forse per la tua fede, aveva tutto un significato molto più intenso, assolutamente obliquo al qui ed ora. Per te ero LUI, che ad un certo punto arriva e basta. Ho cercato di dirti che non sarebbe stato così e che, con un po’ di fortuna, un giorno ce lo saremmo raccontati da amici ridendoci su, proprio come nel sogno che ho fatto.

Nel sogno non so di cosa abbiamo parlato, ma so come abbiamo parlato: pacifici, divertiti dal fatto che il caso abbia voluto farci fare un pezzo di strada insieme, proprio noi due, così diversi.

Pacifici nell’ultimo periodo non lo siamo stati molto. Lasciati, ripresi, sempre 300 km di ferrovia fra noi due. Io ormai avevo capito dove si stava andando a parare, ma per pigrizia – ammetto – ho lasciato che le cose andassero male. Non me la vivevo bene, e mi mancava la te del primo periodo, ma a quella età si corre, si cambia, anche se il quotidiano pare cristallizzato. Sentivo che non ero io per quello per te. La cosa mi dispiaceva, ma non potevo farci nulla, non potevo diventare chi volevi tu. Tutta l’epicità che mettevi in ogni ricorrenza, in ogni prima volta, iniziava a pesarmi. Mi promettevi l’infinito ma lasciavi a me la responsabilità di decidere dove averlo. Non lo so dove lo voglio, non so nemmeno se c’è. E mi interessava sempre meno. C’era una chioma rosso scuro e due occhi verdi che proprio non riuscivo a non guardare.

Con gli anni ho iniziato a guardare con interesse dove la gente decideva di mettere il Pendolo. Mi interessavano soprattutto le soluzioni più audaci, blasfeme, impensabili. Il soffitto di un bordello mi interessava molto di più del soffitto del Conservatoire come luogo prescelto. L’importante era che continuasse ad oscillare, garanzia empirica di movimento e di vita. Oppure innegabile presenza di divinità superiori, per chi ci crede. Mi interessava comunque.

Tante, tantissime volte la voglia è stata di staccarlo, brutalmente, tirando con tutto il mio peso verso il basso, schivando intonaco e calcinacci, arrotolare tutto e portarmelo via il falso profeta, senza sapere bene dove andare, ma sicuramente non più lì dove stavo prima. Non è una soluzione da escludere e poi ogni contestazione porta con sé qualcosa di interessante, però c’è bisogno di oscillare e quindi serve un punto fermo.

Io, alla fine, ho deciso di appendere il mio pendolo sopra al soffitto dove vive quella chioma rosso scuro con i due occhi verdi.

Il mio infinito.

Autore: scartafaccio

"produrre il necessario distribuire tutto"

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