Analisi di un libro e di una storia in 30 anni

Rileggo un libro. Non lo avevo mai fatto prima, forse sto invecchiando. A dire il vero non è proprio una rilettura. Quel libro lo avevo iniziato, ma non finito. Ero un ragazzino quando presi in mano “Vita di Enrico Berlinguer”, di Giuseppe Fiori. Lo aveva letto mio padre, poi mia madre e alla fine io.

Libro estivo. Ho due ricordi legati alla prima lettura – incompleta – di quelle pagine. Nel primo siamo io e mia sorella seduti su un terrapieno a bordo strada. Maremma, sole, ulivi a fare un po’ di ombra sennò un caldo cane. Stavamo aspettando che nostro padre risolvesse un problema della macchina, la nostra Fiat 131 familiare, insieme al meccanico, lì, poco distante.

Faceva caldo. La strada provinciale lunga, dritta e assolata.

Quando Berlinguer si iscrisse al Pci era estate, Sardegna. Un suo amico lo accompagnò alla sezione locale ma non ebbe, dal futuro segretario, il permesso di entrare. Lo aspettò fuori, tra ulivi, caldo, cicale, sul ciglio di una strada assolata.

Il secondo ricordo è lo scompartimento di un treno che andava da Livorno a Milano. Ero stato qualche giorno al mare da mia nonna e tornai in treno a Milano. Durante il viaggio lessi buona parte di quel libro, suscitando la curiosità dei ragazzi, più grandi di me, con cui condividevo lo scompartimento.

Poi il libro lo mollai: troppe descrizioni di correnti, intrighi, maneggi e intrallazzi della politica italiana di quegli anni. Non che non mi interessassero, ma Fiori, nelle sue biografie, spesso lascia da parte il soggetto di cui sta raccontando la storia e ti parla, diffusamente, del contesto: personaggi che gravitano attorno al leader, o anche figure secondarie, che concorrono a creare il contesto. A me interessava più che altro lui, Berlinguer, che godeva della stima di mio padre e quindi, di riflesso, anche della mia. Forse, data la mia giovane età, avrei preferito leggere cose sulla sua vita, su sua moglie, i suoi figli. Fiori però non faceva gossip, né declinava la descrizione a meri tratti di personalità, usando fatti e fatterelli personali per delinearne la figura. Fiori preferisce sempre andare al contesto, perché senza quello la natura delle sue biografie non avrebbe senso di esistere.

Ho ripreso quel libro, venuto fuori da qualche scatolone del trasloco. E, ora, l’ho quasi finito. Ho riletto alcune mie sottolineature, che riguardavano quasi esclusivamente la personalità del leader comunista. La pacatezza, la risolutezza, una immagine pubblica austera e anche triste, secondo alcuni, quando invece, l’uomo Berlinguer, era allegro, solare, molto scherzoso. Solo che non vedeva motivo di essere così anche nella sua immagine pubblica. Praticamente un altro mondo, pensando ai politici di oggi.

Ebbi la consapevolezza, indistinta ma abbastanza chiara allo stesso tempo, di quando superai il punto in cui mi ero arenato da ragazzo. Poco prima del compromesso storico e di come andò a finire.

Sono andato oltre. Stavolta ho trovato interessante la descrizione delle trame politiche di quel periodo, delle correnti presenti nel Pci ma anche nella Dc. Però oggi la penso diversamente.

Arriva il 77 e a Fiori non è piaciuto. Quella marea caotica, frenetica e indistinta faceva casino per le strade, usava l’ironia, lo sfottò. Era composta da varie anime che in pochi si sono presi la briga di studiare. La delicatezza della situazione in cui si trovava il Pci – lavorava al compromesso storico: difficile equilibrio fra una storia e una impostazione rivoluzionaria e leninisita e un posto in una democrazia occidentale sotto l’egida della Nato – dava l’impressione che funzionari e militanti ne fossero infastiditi. Come uno che sta facendo un castello di carte e l’altro gli apre la finestra per fare corrente. Indispettito. Il fatto è che spesso le prime manifestazioni di un nuovo sentire, di esigenze e richieste nuove che vengono dalla società, non sono belle da vedere, come disse Tonino Loris Paroli (ex Br e testa pensante). Bisogna saperle guardare con occhi giusti, capire cosa c’è lì in mezzo di buono, quali “nuclei di verità” vi sono all’interno, quali questioni sollevano (al di là del “come”). Un po’ come le piazze No Green Pass di Trieste: molti compagni che si sono trovati lì han dovuto fare un faticoso lavoro di ricerca per trovare le cause giuste, le persone giuste in mezzo a crocifissi sventolati contro Satana, attori in declino in cerca di un ultimo respiro di notorietà, discorsi farneticanti di alieni e mangiatori di carne umana, preferibilmente di infanti.

Una fatica. Che però va fatta.

Il 77 poneva temi con i quali ci saremmo confrontati pochi anni dopo: la società dei consumi, l’affermarsi dei consumi indotti, il possedere un oggetto come garanzia di inclusione sociale, l’uscire da una rivendicazione di soddisfacimento dei soli bisogni base per chiedere abbondanza, riposo, relax. Piegare le nuove tecnologie di produzione per il benessere di tutti. Gli slogan secondo me più riusciti: “Vogliamo anche le rose” (e non solo il pane) e “Godimento Operaio”. Lavorare meno, incrementare il consumi culturali – liberi e gratuiti – e liberare l’essere umano dalla sua alienazione. Il vello soffocante dell’edonismo craxiano attutì, poco dopo, quelle questioni, lasciando ai più sensibili un malessere sostanzialmente personale.

Indiani metropolitani – Bologna – inizio 1977

Il Pci stava facendo la sua partita, mossa – non ho motivi fondati per credere il contrario – da una sincera intenzione di miglioramento delle condizioni di lavoratori e lavoratrici sfruttate. Aveva un margine di manovra ristretto, fra trame golpiste di destra e una base con velleità rivoluzionarie di stampo marxista.

Dimenticò però per strada alcune cose. Sostanzialmente la base e non parlo di militanti ed iscritti. Parlo degli ultimi, degli sfruttati, dei reietti, di tutti quelli a cui un partito comunista deve dare una prospettiva, una risposta.

Illuminante in questo senso – seppur scritta ben 16 anni prima, ma questo si chiede agli intellettuali: di capire cosa sta per arrivare e di andare oltre – la poesia di Pasolini “Alla bandiera rossa”, che si conclude così:

tu che già vanti tante glorie borghesi e operaie,
ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli

Arriva il sequestro Moro, un anno dopo, e qui Fiori a mio avviso si perde: la sindrome da accerchiamento, la sensazione (assolutamente fondata) di grandi poteri avversi al disegno politico del Pci, butta nel calderone anche le Br, che sicuramente erano avverse al Pci, ma soprattutto al “sistema” in generale. Le Br non facevano distinzioni in questo senso. Andavano per la loro strada, ma, visto il contesto, la tentazione di disegnarle come organiche al processo di accerchiamento del Pci e quindi di concerto con i poteri forti, mi pare storicamente scorretto.

Che, una volta sequestrato Moro, la sua uccisione facesse comodo a molti, è un fatto. Quale miglior modo per evitare l’ingresso del Pci al governo che eliminarne uno dei suoi artefici? Però che le Br avessero altri piani secondo me lo dimostra il fatto che fecero di tutto per non uccidere l’ostaggio. Chiesero la liberazione di 13 prigionieri politici in cambio della vita dello statista Dc. Non se ne fece nulla. Chiesero lo scambio “uno per uno” e per un po’ ci fu l’ipotesi di liberare una compagna malata che si trovava dietro le sbarre. Non venne accettato nemmeno questo. Alla fine le Br erano interessate solo al riconoscimento politico: riconoscere cioè una soggettività politica e non solo una questione giudiziaria e di ordine pubblico.

Fiori cita alcuni contatti fra persone contigue al mondo brigatista e alcuni esponenti del Psi, ma la fa troppo facile. Il Psi e le Br sicuramente avevano nel loro mirino il Pci. Per motivi diversi però. Il Psi puntava, tramite un abile e spregiudicato gioco politico, all’isolamento del Pci, così da poter diventare – e restare – l’unico referente a sinistra del più grande partito italiano, la Dc. Le Br colpivano – e colpivano duro – per sovvertire lo stato di cose presenti. La loro idea era di scatenare contraddizioni e conflitti atti a fare esplodere la rivoluzione. Erano una avanguardia, anche se con il tempo hanno smesso di domandarsi quanta gente ci fosse effettivamente dietro di loro (e all’inizio della loro storia ne avevano parecchia).

Trovo sbagliato accomunare questi due soggetti e pensare che agissero di concerto.

I contatti fra Psi e persone attigue alle Br ci furono, è vero. Ma ci furono, e questo Fiori lo dice, perché il Psi voleva rompere il fronte della fermezza (nessuna trattativa con le Br) di cui la Dc e il Pci erano gli esponenti più radicali. Il Psi cercava uno spazio politico e durante i giorni del sequestro Moro, si spese per la trattativa. Non la definirei una posizione prettamente umanitaria, piuttosto utilitaristica, per quanto mossa da un fine nobile, cioè salvare Moro.

Molti compagni dell’area della Autonomia avevano contatti con altri compagni in clandestinità, brigatisti o appartenenti ad altre formazioni rivoluzionarie e per questo capaci di fare arrivare ai carcerieri di Moro proposte, idee, compromessi per scongiurare il peggio.

Ci furono dei contatti che però, come sappiamo, non risolsero la questione.

Credo che Fiori – persona dotata di una notevole capacità di analisi, di cultura profonda e di una scrittura complessa ed efficace allo stesso tempo – cada nella trappola del complottismo, non ho idea quanto consapevolmente.

È molto difficile ammettere che in Italia, per più di 10 anni, ci sia stato un movimento clandestino capace di colpire i simboli del potere e ritirarsi ordinatamente dopo ogni azione. Al di là di come la si pensi, riconoscere una soggettività politica alle Br vuole dire riconoscere una conflittualità ed una radicalità di alcune istanze, che la politica istituzionale voleva rimuovere a tutti i costi, Pci compreso. Allora serve l’eterodirezione, serve trovare una mano misteriosa che ha armato quelle mani (mano peraltro mai venuta fuori in modo preciso dopo centinaia di processi), altrimenti bisogna ammettere che in Italia c’era chi davvero voleva fare la Rivoluzione, quella vera, quella radicale. Non “un pranzo di gala” ma “un atto di violenza”, come disse Mao.

Tutto questo stona con una immagine di paese sì iniquo a tratti, ma sostanzialmente pacificato. Allo stesso tempo mette in discussione tutti quei canali di partecipazione – pure numerosi in quegli anni – per migliorare le proprie condizioni di vita collettivamente. Ne mostra la inefficienza o, quantomeno, la loro non esaustività. Per quanto elevato potesse essere il livello di discussione presente nelle varie sezioni e strutture di partito, nonché sindacali, a molti tutto questo non bastava.

Raccontare questo vuole dire ammettere l’esistenza di una storia che deve essere cancellata. Da qui la prospettiva dell’ordine pubblico, del “non si può uscire tranquilli la sera”. Cose vere, leggendo le cronache di quegli anni, il clima era pesante. Però questa non è una prospettiva politica. Pare quasi che, nel momento in cui la conflittualità sociale e politica arrivi alle sue estreme ma prevedibili conseguenze, sia necessario tornare al personale, parlare della donna con figli che la sera deve stare chiusa in casa. Tutto vero, ma la prospettiva politica è altra cosa. È una cosa che spesso ti fa mettere le mani nella merda ed è chiaro che l’operazione non sia invitante. Ma è necessaria, se si vogliono capire i fenomeni a fondo e dalla angolatura giusta.

Fiori si abbandona a questo. Elenca gli atti di terrorismo uno dietro l’altro, fra uccisioni e ferimenti. Ma, per dirla con i Wu Ming, bisogna “saperci fare con il sintomo” e non scambiare il sintomo con la malattia.

Vale la pena ricordare che, se parliamo dei primi anni 70, quando iniziò a manifestarsi il fenomeno del terrorismo di sinistra, il paese aveva visto carabinieri che sparavano su braccianti che chiedevano terra e pane, aveva visto cadere, poco più di 10 anni prima, uccisi dal piombo della polizia, quelli che manifestavano contro l’ingresso al governo del Msi. C’erano vessazioni di ogni tipo sul lavoro, c’era un patriarcato che non voleva assolutamente cedere posizioni e una legislatura che agiva di concerto (le disposizioni sul delitto d’onore sono state abrogate definitivamente nel 1981).

7 luglio 1960 – 5 morti a Reggio Emilia

Era questo il contesto. Ignorarlo o citare la scarsa pazienza di alcuni compagni incapaci di aspettare i frutti di un lento lavoro di conquiste parziali e compromessi, mi pare che mischi il piano della valutazione politica soggettiva, con la situazione generale. Si fa riferimento ai problemi personali dei vari protagonisti: uno che prende la pistola in mano deve avere delle turbe o una infanzia infelice. Si torna sempre al soggettivo quando una radicalità viene espressa in modo considerato non ortodosso.

Fa caldo anche oggi, come in quel pomeriggio maremmano in cui io e mia sorella aspettavamo che nostro padre risolvesse i problemi della 131 insieme al meccanico.

Non ci sono però ulivi a fare ombra.

Vorrei essere al mare.

Vorrei togliermi di dosso questa sensazione da occasione persa.

Autore: scartafaccio

"produrre il necessario distribuire tutto"

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