…che pure ottobre può sembrare bello (o della versatilità del ragno)

La versatilità del ragno – la rete porta oggetti per moto – è notevole. Un oggetto piccolo, che costa pochi euro, in grado di allargarsi ed allungarsi fino a imbrigliare volumi anche molto grossi. Accessorio indispensabile, anche solo da avere dietro per ogni chissà.

Lego la cassa di libri alla sella, al posto del passeggero. Pare solida e ferma. L’altra cassa finisce nel bauletto della moto. Che però così non si chiude. Prendo una cinghia comprata anni fa, i primi tempi della Vespa. Ha dei colori caldi, rosso, giallo e arancione, un po’ sbiaditi. Blocco il bauletto, controllo ancora una volta la cassa che fa da passeggero e parto.

Da vari anni quelle casse di libri sarebbero dovute tornare a casa mia. Solo che prima non c’era posto, poi c’è stato il trasloco, poi l’estate, alla fine mi sono deciso ora. E tante ancora ne mancano.

Torno a casa, scarico e le apro. Vengono fuori vecchi romanzi, libri della Shake, edizioni del Leoncavallo, della Castelvecchi, moleskine di appunti, moleskine di appunti solo politici, foto, locandine, la scaletta di un concerto della Banda Bassotti di chissà quando, una bellissima edizione delle “Mille e una notte”, inediti di Pino Cacucci, “Altai” dei Wu Ming che non pensavo di possedere.

Scatta il problema della classificazione. Vado per argomento, almeno per quel che riguarda il sociale e la politica. Vado per autore sulla narrativa, dividendola per nazionalità.

Mi serve per ritrovarli, più che altro. La tentazione di sbattere tutto dentro e liberarmi delle carcasse degli scatoloni è forte. Però deve avere un senso. E poi, una volta sistemati alcuni “settori”, c’è quasi un equilibrio cromatico fra libri che parlano dello stesso argomento.

Ogni cosa ne richiama un altra, ci sono collegamenti fra tante cose, innumerevoli, a volte disorientanti per mole. Tenere tutto insieme è un bell’esercizio. Mi piace.

Ogni tanto sbricio Twitter. Mi trovo sempre peggio su questo – unico – social cui sono iscritto. Il problema è proprio il tweet, cioè a dire quei pochi caratteri da botta e risposta. E il botta e risposta regolarmente non fa centrare il fulcro del problema, fa prendere derive spesso nate da questioni personali, coacervo di domande retoriche fuori posto e fuori luogo. Pochi i link a contributi apprezzabili, poca intenzione di uscire da lì, da quel giro.

Ingenuamente forse, avevo pensato che proprio la brevità imposta da twitter, con i suoi vecchi 180 caratteri, imponesse di usarlo per andare altrove. Un luogo dove scambiarsi due opinioni due supportate però poi da link ad articoli, documenti e approfondimenti vari. Una occasione per trovarsi e prendere insieme altre strade, indicarne di nuove, magari costruire quelle necessarie. Invece non è esattamente così.

Leggo il tweet di un profilo che seguo (e lui segue me): mette insieme i no vax e i no green pass senza alcune distinzione. Un unico calderone di opposizione ad una civiltà della medicina e della scienza che per ignoranza qualcuno ha deciso di seguire. Sulle prime non capisco. Pare un compagno, parla della Palestina e degli scioperi. Penso di parlare ad uno di noi, quindi decido di rispondere, sottolinenando che io, personalmente, sono favorevole al vaccino ma contrario al Green Pass.

A questo punto mi pare inutile ricostruire il nostro scambio, perché vengo subito ascritto alla galassia “no vax”, mi viene detto che la mia posizione è davvero strana e finisce a parlare di come i vaccini siano distribuiti nel mondo in modo diseguale e noi che li abbiamo dobbiamo usarli per rispetto a chi non ce li ha (e il collegamento con il Gp scompare, come se fosse implicito).La chiudo velocemente e civilmente. Smetto di seguire il mio interlocutore perché penso che non abbiamo nulla da dirci (e lui fa altrettanto con me poco dopo).

È proprio il “nulla da dire” che a volte mi viene fuori e che mi blocca. Passo buona parte del mio tempo a leggere, a cercare di capire, e trovo contributi davvero notevoli, chiari, che rimandano ad altri contributi ed altri ancora. Leggo tutto avidamente, prendo nota.

Muovo i miei passi partendo, come spesso mi capita dai compagni della Wu Ming Foundation. Avrò riletto 10 volte questo articolo . E ho girato varie volte fra i capitoli di questo dossier. Ho seguito quante più diramazioni possibili e mi sono fatto una idea. Che poi è sempre la stessa. Parti con una logica contro il capitale e ti troverai bene.

Io mi sono vaccinato. E sono contro il Green Pass. Credo che la vaccinazione sia utile e credo che il Gp non serva a nulla.

Ricordo la retorica dominante dopo l’arrivo dei primi vaccini: Draghi e i suoi accoliti paragonavano chi non si vaccinava ad un complice di omicidio. Non entro nel merito dell’affermazione, non mi interessa confutarla qui. Preferisco riflettere su quella che dovrebbe essere la conseguenza di questo discorso. È questo il livello di pericolo cui andiamo incontro? Davvero? Allora, visto che sei il presidente del consiglio, agisci di conseguenza: rendilo obbligatorio Se il tenore delle argomentazioni pro vaccino è questo – responsabilità della morte di altri cittadini – allora non può che gestirlo il governo. Qualunque altra soluzione risulterebbe inadeguata.

Invece no. Non è andata così. La vaccinazione non è obbligatoria. È volontaria. Sta quindi alla volontà del singolo. E il singolo si vaccina. Verso fine primavera veniamo vaccinati anche noi e la curva dei vaccinati si alza e continua a crescere ripida fino ai primi di luglio. Poi cresce ancora, ma più lentamente. Il 6 agosto di quest’anno entra in vigore il green pass. Lo devi esibire per poter accedere a determinati luoghi e servizi e viene subito raccontato come la diretta conseguenza della esistenza del vaccino (anche se vedendo i grafici dei vaccinati, il Gp non ne ha in alcun modo incrementato la richiesta).

Ma vaccino e vaccinazione non sono la stessa cosa (e qui è spiegato bene). Il vaccino segue un iter scientifico, viene approvato secondo protocolli standard e secondo un procedimento oggettivo. La vaccinazione invece è il modo attraverso cui i vaccini vengono prodotti e somministrati. Nella vaccinazione c’entra la politica e vengono fatte scelte che non provengono da un processo scientifico, ma riguardano le priorità politiche di chi ci governa.

La narrazione però questo non lo prendeva in considerazione. La scientificità ed oggettività del vaccino era trasferita, come diretta e naturale conseguenza, alla vaccinazione. La vaccinazione, e quindi il Gp, potevano godere dello status di scelta scientifica, inevitabile.

Non serve addentrarsi più di tanto nei meandri delle disposizioni relative al Gp per capire che la scientificità e l’oggettività sono aspetti che nulla c’entrano con quanto sta accadendo.

Il Gp lo devi tirare fuori al teatro e al cinema, ma non nel centro commerciale. A teatro e al cinema, se le disposizioni anti Covid sono rispettate (posti distanziati e ingressi scaglionati) , il rischio è minore rispetto ad un centro commerciale, dove razzoli liberamente assembrandoti davanti alle offerte più allettanti (e anzi sei assolutamente incentivato a farlo).

Pare quindi che il centro commerciale, il commercio, il “consuma e non rompere i coglioni” sia tutelato al di là delle buone pratiche di contenimento. La logica è la stessa: riqualifichi un’area? Ci metti un centro commerciale. Rifai uno stadio? Dentro ci sarà spazio per ristoranti e negozi. Crei un nuovo quartiere dal nulla? Centro commerciale come luogo di “socialità”. C’è una pandemia? Anche se non ti sei vaccinato, lì ci puoi andare.

A me pare tutto uguale.

Ecco, come questa cosa non sia visibile davvero mi stupisce. Forse aveva ragione Edgar A. Poe quando diceva che il modo migliore di nascondere una cosa è metterla sotto gli occhi di tutti. Tanto nessuno pare veda un cazzo.

C’è un aspetto forse appena meno visibile ma ancora più profondo. Il Gp ribalta le responsabilità. Così come durante il lockdown il responsabile era il runner o chi portava fuori il cane, oggi il responsabile è chi non ha il Gp. Non una sanità smantellata da decenni di saccheggio perpetrato da governi sia di destra che di “sinistra”, non una logica che ha scardinato la medicina sul territorio in favore dei grandi centri ospedalieri (e la pandemia ha dimostrato quanto sia importante avere presidi medici distribuiti capillarmente sul territorio), non le decisioni prese da Confindustria che hanno fatto lavorare gli operai anche in pieno picco pandemico. Niente di tutto questo. Il colpevole è il singolo. Che andava a correre, che usciva a passeggiare e che oggi non ha il Gp.

È il rovesciamento sul singolo, la strategia. Semplice e facile: metti gli uni contro gli altri. Crei un pensiero unico e chi vi aderisce ha privilegi e accessi riservati. Gli altri si fottano, troppo ignoranti per essere presi in considerazione.

Non è la politica del governo – di questo governo in particolare – a stupirmi. La logica è sempre la stessa: proteggere il profitto, disincentivare l’aggregazione su basi sociali e conflittuali. È persino ammirevole la capacità di adattamento del sistema alle situazioni. Mi sorprende la cecità di chi si dice “compagno” e poi di fatto non vede quelle dinamiche che un compagno dovrebbe sempre saper vedere.

Lo sberlone del lockdown, la famigerata primavera 2020, è stato un colpo da cui non è stato facile riprendersi. Ricordo che verso metà aprile avevo smesso di informarmi. Leggevo solo i numeri, cercando un barlume di oggettività, cercando di fare delle previsioni. Però per quasi due settimane ho lasciato perdere ogni analisi. Penso che questa reazione, più o meno intensa, l’abbiamo avuta in molti. La fatica di prendere in considerazione la realtà, di sfuggire alla logica dell’emergenza – fuga davvero complicata durante il lockdown, perché lo scenario fatto di strade deserte ti calava in un contesto assolutamente nuovo, sconosciuto, che non aiutava a fare luce e chiarezza.

Ecco, io ho la sensazione che, soprattutto fra compagni, molti non si siano mai davvero ripresi. Ho percepito una implicita adesione alla narrazione dominante, all’affidarsi a chi ci governa farneticando di responsabilità e doveri verso gli altri, tutti uniti per uscirne insieme. Le differenze di classe, le differenze di responsabilità, i rapporti di forza, tutto cancellato. Stringiamoci insieme, #andratuttobene e così poi possiamo riprendere a begare fra noi. Sospendiamo l’attività critica. Come se fosse tutto cristallizzato dall’emergenza. Ma in realtà si è fermato solo il dissenso. L’attività padronale ha continuato e continua imperterrita, con la massiccia arma a disposizione del “se non fai così sei un untore assassino”.

In questi giorni ci sono stati scontri a Trieste. I lavoratori portuali avevano deciso di bloccare il porto, contro le politiche del Gp e tutto quel che ne deriva per loro. È forse bene ricordare che i lavoratori della logistica sono stati i più mazzolati, hanno lavorato sempre, anche durante il lockdown duro, senza nessuna protezione, senza alcun tipo di misura di contenimento pandemico. Se in una scuola, alla presenza di un positivo al covid, si bloccava l’insegnamento, tutto ciò non è successo mai per questo comparto produttivo. L’istruzione si poteva fermare, la logistica no. A nessun costo.

Ora: mi risulta molto difficile cercare di spiegare che quando gli operai manifestano, l’attenzione deve andare lì. Aspettarsi l’operaio che ha piena coscienza, che ha il manifesto in tasca, che ha la tuta blu è nostalgico e idiota. Per dare battaglia tocca mettere mani e piedi nella merda. Ho letto e sentito vari interventi e contributi relativi a questa lotta. Alcuni assolutamente circostanziati e condivisibili. Altri contenevano alcuni passaggi contestabili, altri non centravano proprio il bersaglio. Per chi è comunista è un lavoro da fare. Immaginarsi sempre e comunque la battaglia pulita, giusta, motivata, che non sbaglia i piani, che usa parole che riconosciamo “altrimenti nemmeno mi ci metto”, è un atteggiamento conservatore e reazionario.

Bisogna buttarcisi dentro. Districare la matassa, avere chiari gli obiettivi e dove sono le “linee di frattura” reali, quelle che interessano chi ha a cuore il rovesciamento dello stato di cose presenti.

Chiaro che c’è confusione. Chiaro che a volte i collegamenti non li trovi, le contraddizioni abbondando, i fasci te li ritrovi in piazza e invece di limitarti a schifarli tocca scendere in piazza e riprendersela, perché se loro sono lì vuole dire che non ci siamo stati noi.

Ci sono tanti colori, come in una libreria con tanti libri. Quando ti decidi a fare lo sforzo, a cercare i nessi, a trovare l’ordine giusto, a capire chi deve stare vicino a chi e perché, diventa bello, diventa armonico, diventa lotta.

Perché abbiamo tutti gli strumenti.

Autore: scartafaccio

"produrre il necessario distribuire tutto"

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