uno e 60

Ho provato a dormire. Sul divano. Ma non c’è stato verso. Finestra aperta sulla sala. È giugno. È giusto che sia così. Stanno togliendo le impalcature dal palazzo di fianco. Con costanza e maestria le impalcature stanno scendendo. Piano per piano. Ci sono rumori a tratti forti, un po’ troppo forti e a sorpresa per poter dormire. Mettici anche che ultimamente arrivo al momento top dell’abbandono, quando le mie fantasticherie mi hanno definitivamente rapito, e puntualmente qualcosa mi richiama alla veglia. Quasi un dovere di non abbandono. Lì torno sveglio. Se è notte attendo. Mi intrattengo con i miei pensieri e poi il sonno ritorna, anche se in modo meno cerimonioso e quindi meno piacevole (i piaceri della vita è giusto che siano cerimoniosi). Arriva e basta e manco mi ricordo come è che è arrivato. Ma se è pomeriggio allora basta. Meglio alzarsi.

Ho aperto il mac e mi sono messo a vedere che caspita combina la Global Situation Room. È una società che si occupa di “Crisis & Reputation Management”. In sostanza se la tua azienda, la tua attività gode di pessima fama, loro ti danno una mano a trovare strategie atte a far sì che la tua immagine migliori. Leggendo mi è sembrato che si sfrutti un po’ l’idea “purché se ne parli”. Un passaggio – “Focused on impact rather than impressions” – mi ha suggerito questo approccio. In fondo avrebbe senso. Focalizziamoci su cosa la cattiva fama effettivamente porta: non è detto che sia tutto negativo.

Fin qui niente di molto strano, tolto il fatto che se questo tipo di servizio viene offerto, direi che c’è una domanda (e pure di un certo livello a quanto pare).

Quello che mi sembra strano è che i servizi di questa società, siano stati richiesti nientemeno che dal CIO, ovvero il Comitato Olimpico Internazionale.

Le prossime saranno quelle invernali, note come Milano – Cortina 2021 (ci han pure chiesto dei soldi perché potessimo esprimere la nostra preferenza su quale logo fosse il migliore). Sorvolando sul bizzarro binomio (due luoghi non proprio vicini), è ormai chiaro, a chiunque voglia informarsi, che le olimpiadi rappresentano vagonate di denaro pubblico senza che al pubblico torni alcunché.

Le ultime manifestazioni hanno visto opere costosissime ed inutili venire erette senza che ci fosse alcuna idea di un utilizzo futuro, post evento. Sono rimaste lì. Inutilizzate e inquinanti.

Partendo dal presupposto che le olimpiadi sono una occasione di festa e di condivisione, celebrazione di atleti e di virtù sportive, suona strano il ricorso ai servigi di una società come la “Crisis & Reputation Management”.

Mi pare la degna conclusione di badilate di retorica su cosa dovrebbe intrattenerci e su cosa non dovremmo farci domande, accettando senza troppi “perché?” quello che ci viene propinato.

Ripenso a quello scatto che ritrae i vari amministratori di Lombardia e Veneto – in primis Sala e Zaia – esultare alla notizia della assegnazione di questi giochi olimpici. Uno scatto che trovo obbrobrioso, volgare. I volti colti in una smorfia di esultanza e ingordigia. La consapevolezza, in quel preciso momento, che tutto sarebbe andato secondo i piani.

Oggi ho cambiato i miei piani. Dovevo fare altro, ma sono salito in moto. Sono andato verso il traghetto di Leonardo. Un traghetto a mano, che attraversa l’Adda unendo i moli di Imbersago (Lecco) e Villa d’Adda (Bergamo).

Sono arrivato lì in un’oretta. Le ultime curve sono a scendere, verso il fiume. Un ragazzo in bici davanti a me va davvero forte. Una macchina fra me e lui. La macchina va molto piano. La supero e mi metto dietro al ragazzo in bici. Lui sente il rumore della mia moto che arriva. Si gira. Cerca di capire se voglio superarlo. No, non voglio. E poi dovrei impegnarmi per superarlo. Lui allora scende gli ultimi tornanti tranquillo, occupando quasi del tutto la sua carreggiata. Disegna belle traiettorie e gli sto dietro. L’ultimo tornante lo fa veloce. Io più lento. Lo recupero sull’ultimo rettilineo prima del molo. Mi sono venute in mente le riprese del giro d’Italia, quando i ciclisti scendono veloci e le moto non gli stanno bene dietro, recuperando il terreno perso sui rettilinei.

Ho fermato la moto vicino all’imbarco. Il ragazzo ha raggiunto una nutrita comitiva di suoi coetanei che bivacca sulle panchine e il prato lungo il fiume. Sono molto giovani, non credo maggiorenni. Entro nell’unico bar. Chiedo un caffè. Prima di me, tre di loro aspettano dei toast e parlano di sbronze con grappe trovate in casa.

Esco, bevo il caffè e fumo una sigaretta (vera). I ragazzi giocano a pallone, la palla finisce in acqua e i più fisicati si buttano per raggiungerla a bracciate. Mi han fatto venire voglia di un bagno. Nel frattempo il piccolo traghetto è tornato sulla nostra sponda. Salgo con la moto. Con me una coppia indecisa su quale ristorante scegliere per pranzo: uno è su una sponda, l’altro su quella opposta. Fanno avanti e indietro in attesa di decidersi. Io pago un euro e 60, per me e per la moto. A braccia arriviamo dall’altra parte.

Fa caldo, ma la giacca con le protezioni me la tengo fino a casa.

Mangio, mi metto sul divano e provo a dormire

(grazie a @Max_Mainardi per l’ispirazione)

new

Si ricomincia. Forse non abbiamo mai smesso. Si comincia con una casa piena di luce, di libri, affacciata su una piazza i cui alberi sembra vogliano entrare in casa.

Fuori il mondo è sempre quello. Resistente, perché preferisco guardarne il lato buono. Il mio mondo fa parte del tutto. Se ci sono notti agitate, di quelle alla fine delle quali ti alzi incarognito, anche in Palestina ci sono. Solo che lì non dormono perché sentono il rombare degli aerei militari e devono sperare che la bomba non cada presso di loro. Io mi limito a sperare che la notte dopo vada meglio.

Loro sperano di essere ancora vivi, al mattino.

Si ricomincia con un po’ di mal di schiena per gli scatoloni e i mobili portati su per le scale, gli starnuti da polvere e da polline. Ma fuori c’è il maggio. Il nostro maggio. Quello che cantava De André e io sono sicuro che anche questo maggio ha la sua da dire. Lo vedo nei giovani, in quelli che , facendo due conti, potrebbero essere i miei figli. E pure grandicelli. Lo vedo nelle kefiah avvolte alla bell’e meglio intorno al collo, nei libri che leggono (gli stessi che ho letto io), in quella voglia di fare qualcosa, di organizzarsi. E si può leggere come un’altra generazione che verrà sconfitta o come un’altra generazione che ci prova, che farà un pezzetto, che lotterà con i mezzi e i tempi che sta vivendo. C’è da imparare. Stare zitti e ascoltare, con loro. Parlare se interrogati.

Amici da invitare, facce da rivedere. Cene con bambini razzolanti intorno. Canne e libri di cui parlare.

Mi guardo e ora sono grande, ma non ho perso quello sguardo “di sospetto e di fede verso il mondo curioso dei grandi”. Ed è divertente a volte, perché guardi due te stesso. Uno apparentemente grande e inserito. L’altro che cerca, razzola, vuole perdere tempo, ha come desiderio più grande quello di stare in spiaggia a guardare le nuvole correre. Magari con una chitarra in mano.

Oggi ancora scatoloni, libri da sistemare, riviste da catalogare. Ho trovato anche alcune cartoline. E tanti, tanti biglietti. Me li ricordo tutti, andavano solo rispolverati, recuperati dagli scaffali e dalla memoria.

Se ne accumuleranno altri. E saranno tutti bellissimi.

Bellissimi, con quelle “i” mezze ciancicate come le pronuncia mia figlia.

Dicono mi somigli.

È questo il gioco.

Stare zitti e ascoltare, con loro

una questione di lotta e di prospettive

Premessa: qualche settimana fa mi è stato chiesto un contributo per un progetto sul mondo dei blog. Come sono cambiati, come sono stati influenzati dall’avvento dei social. Traccia libera. Io ho usato tutta quanta questa libertà per raccontare come la vedevo – e la vedo – io

Mi pareva un ottimo modo per tornare a scrivere.

Ecco qui il risultato

Era il 2005. Era appena finita l’estate. I 30 si avvicinavano ed ero stagista in un istituto di ricerca. Fondamentalmente riempivo buchi in quell’ufficio, ma non mi dispiaceva. Avevo molto tempo libero. Aprivo messenger che serviva sia per comunicare con i colleghi nelle altre stanze, sia per cazzeggiare con amici, con la fidanzata. Navigavo anche molto. Spesso senza andare da nessuna parte. Pur con tutto lo sforzo, non ricordo come finii su un blog di tiscali. Lessi qualcosa, trovai qualche compagno. Era un pomeriggio di settembre, ero in ufficio e non avevo molto da fare. La nostalgia dell’estate e del mare mi molestavano come ad ogni settembre

La scrittura per me è sempre stata l’ancora di salvezza. Da ragazzino ho cercato di capire attraverso cosa avrei potuto esprimermi in modo adeguato. Non avevo fretta né ansia di trovare il mio mezzo. Presi a disegnare, ma non ero portato. Mi misero in mano una chitarra, ma mi sembrava difficilissima (solo anni dopo ho capito le sue potenzialità e ora ho coronato il mio sogno di suonare in un gruppo). Nel frattempo tenevo un diario di tutti i miei tentativi, senza accorgermi che stavo utilizzando lo strumento giusto, quello per me più adatto. Anziché scrivere dei miei tentativi falliti nella ricerca di forme per esprimermi, arrivai – con colpevole ritardo – alla conclusione più ovvia: scrivi per raccontare, è quello il tuo strumento.

“Apri il tuo blog” diceva una scritta in evidenza in alto. Lo aprii, scrissi il mio primo post che si intitolava “un blog? Perché no?”.

Mi piaceva andare in onda, per così dire. Mettere on line significava esporlo. In un mare immenso, certo, ma intanto c’era. Non so bene cosa mi aspettassi, certo è che alcuni amici iniziarono a dirmi che ero bravo. Ero bravo nel raccontare il nulla, ma non in una accezione nichilista. Mi divertivo a spezzettare il tempo, gli attimi; fermarlo per descrivere un’espressione, un tono, e poi farlo ripartire (anni dopo lessi McCarthy e scoprii cosa voleva dire fare questa cosa davvero bene)

Ricordo per esempio che un giorno raccontai per filo e per segno il mio viaggio dall’altra parte della città per portare la macchina a fare il tagliando.

“Ti potrei dire – diceva un mio amico nonché mio accanito lettore – che nel post che hai scritto, cazzarola, non succede nulla. Però è bellissimo, me lo sono letto tutto”.

Raccontare il nulla. Una operazione difficile. Ma io non avevo alcuna ambizione. Me lo hanno detto gli altri che raccontavo spesso quello: vita quotidiana senza sussulti né stravolgimenti, solo i punti di vista davano movimento.

Scoprii dopo, poco dopo, che tutto sommato mi piaceva. Mi vennero in mente le parole de “Il suonatore Jones” di De Andrè: “ e ti piace lasciarti ascoltare”.

Ecco: mi godevo quella piacevole sensazione che non avevo assolutamente programmato.

C’erano chili e chili di Moleskine riempite, più o meno dai primi anni ’90. Scrivevo in modo quasi compulsivo. Mettevo sempre la data e anche l’ora, perché il momento della giornata influiva molto sul tenore dello scritto. Scrivevo molto soprattuto la mattina, dopo la colazione. Leggevo le notizie, iniziava la giornata e io avevo voglia di dire la mia. Non ho mai capito a chi scrivevo, certo era che quegli scritti – che ora, a rileggere, trovo spesso molto noiosi – non avevano alcuna finalità. Forse pensavo che un giorno li avrei ordinati tutti, messi insieme e ci avrei tirato fuori qualcosa di buono. Così non è stato, almeno per il momento.

Non avevo programmato nemmeno un’altra cosa, però.

Casa di amici, interno sera.

I fumatori, e io fra quelli, escono sul balcone. Tra una boccata e l’altra inizio a raccontare qualcosa. Qualcosa che mi è successo, un giro in moto particolarmente bello o magari solo un mio pensiero.

Il mio interlocutore diceva: “ah sì sì” e chiudeva il mio aneddoto, il mio pensiero.

Come faceva? Lo aveva letto. E lo aveva letto perché io lo avevo scritto. E se lo avevo scritto era perché qualcuno lo leggesse, no? Non faceva una piega, ma a volte mi dispiaceva.

Non conoscevo però tutti quelli che mi leggevano. Specialmente la politica, creava unione fra i vari blogger. Ricordo uno che si chiamava Ulz. Un giorno lessi un suo commento sul mio blog: “nerazzurro e pure compagno: il tuo blog finisce diretto fra i miei preferiti”.

Ulz scriveva qualcosa, io lo leggevo e lo commentavo e lo stesso faceva lui con me. Si frequentava gli stessi posti e un giorno ci conoscemmo. Mentre lui rideva, dicendomi che ascoltarmi era esattamente come leggere il mio blog, io, da parte mia, gli dissi che me lo immaginavo esattamente così.

Le relazioni si stabilivano anche per risolvere problemi tecnici. Tiscali forniva dei modelli di blog, ma poi, con l’html, potevi fare quel che volevi. Una ragazza, credo di Roma, che aveva un blog sfavillante, pieno di cose che il mio non aveva, mi spiegò come funzionava l’html. Creai un word con i vari codici per le varie opzioni e ogni tanto mi piaceva cambiare qualcosa di quei codici, per vedere se avevo capito il meccanismo.

Gli anni intanto passavano. Un giorno una ragazza che seguiva il mio blog scrisse fra i commenti: “ci sei su faccia libro?”

“cosa vuol dire?” le chiesi

“traduci e capirai”

C’era Facebook, sì. E stava prendendo piede. Alcuni miei amici mi dicevano che era più semplice lì, ed era iniziata la migrazione di vari blog verso quella esperienza. Alcuni sostenevano che sarebbe stata solo questione di tempo e che tutto sarebbe finito per girare lì.

Io resistevo. Non so bene perché, ma stavo bene dove ero. Facebook non mi convinceva, più a pelle che per ragioni circostanziate (che comunque non tardai a trovare).

L’autunno/inverno del 2011 me lo ricordo freddo e nebbioso. Mi ricordo un Forum di Assago avvolto da una nebbia gelida la sera del concerto di Paul McCartney. Ricordo che avevo un lavoro che non mi piaceva ma che pagava abbastanza bene. A casa ci stavo poco e quel poco che ci stavo leggevo, approfondivo, cercavo di capire sempre di più. Ero affascinato da quelle forme narrative ibride, oppure palesemente riconducibili alla narrativa da un punto di vista tecnico, ma con un valore politico aggiunto. Leggevo i libri del collettivo Wu Ming e ne ero rapito. Mi imbattei in Giap, il loro blog che per me fu una folgorazione. Rubavo e liberavo tempo da ogni dove per leggere quello che scrivevano. Seppi che erano attivi su Twitter.

Twitter era un oggetto abbastanza sconosciuto per me e forse, proprio per questo, mi informai. Mi parve più abbordabile di Facebook. Non era luogo da “buongiorno a tutti” e poi la foto del cappuccino. Era più luogo da “compagn*, oggi è successo questo nel tal posto e occorre reagire”.

Mi piaceva quel clima. Mi piaceva proprio.

É un bel rapporto quello fra compagni. È qualcosa di simile ma di diverso da amici. Amici è una cosa più interiore. Compagni è anche la proiezione pubblica e civile di un rapporto. Si può anche non essere amici ma si conviene di lavorare assieme.”

Twitter per me è stato questo: le parole di Rossana Rossanda hanno riassunto lo spirito con il quale decidevo chi seguire. Ho sempre ignorato la funzione “trova i tuoi amici su Twitter”. Non ero lì per quello.

Iniziai ad osservare, a leggere, a cercare di capire tutto quello che capitava intorno a Giap dei Wu Ming. Grazie a loro conobbi altre persone e altre storie. Trovavo un livello davvero elevato. Si metteva insieme pratica e teoria, riferimenti culturali, analisi politico sociologiche. Io a volte arrancavo, rileggevo alcuni passaggi per capirli bene. Rispolveravo alcuni testi studiati alla università, cercavo connessioni.

In una parola passai ad un livello più alto. Tutta la discussione su dove fossero finiti gli intellettuali, cosa facessero, perché non dicessero la loro, per me era chiusa. Se c’erano erano lì. A dire la loro, a commentare in modo lungo e circostanziato. Bastava mettersi a leggere.

Ho capito in fretta che l’unico uso di twitter che avesse un senso era questo: i tweet servivano solo per invitare a prendere altri percorsi, per poter accedere a siti e blog dove si poteva fare un discorso articolato (molto articolato). Si tornava ai blog, quindi e, ad uno sguardo superficiale, il cerchio si chiudeva. Non del tutto però. Tornare al mio blog dopo essere passato da quel fiorire di citazioni, ragionamenti, contributi, narrazioni de-tossicizzate, non poteva essere una cosa automatica. Non potevo non vedere la differenza. Avevo bisogno anche io di addentrarmi meglio in quel mondo. Se scrivevo di politica – cosa che mi è sempre piaciuta – non potevo ignorare quello che avevo appreso nel frattempo. Il mio giudizio verso me stesso si era fatto più duro. Usare belle immagini e qualche metafora per dire da che parte stavo, non mi bastava più. Improvvisamente mi parve un esercizio inutile. Era una affermazione del sé politico che cercava suoi simili e il dubbio che dietro tutto questo ci fosse una dinamica consolatoria, non mi ha mai abbandonato. Il sé politico si doveva affermare, certo, ma doveva avere senso solo se parte di una elaborazione comune. Così come avevo imparato io, anche il mio contributo, forsemagarichissà, avrebbe potuto aiutare qualcuno.

Con queste aspirazioni la frequenza dei miei scritti diminuì. Mi trovai in una condizione di ascolto. Confrontavo il mio livello di approfondimento con quello delle persone che leggevo e mi pareva che il lavoro da fare fosse molto. Non mi scoraggiai, ma non nego che, allo stesso tempo, trovai estremamente comoda e accogliente la posizione del lettore, sul web. Imparavo, giudicavo, mi intrattenevo, sceglievo, ma non partecipavo.

Vengo da una famiglia di gente “studiata”. Mio padre era docente universitario, sociologo. La mia casa era piena di libri. Sicuramente non è stato facile per me approcciarmi a quel mondo. Ebbi un rifiuto, poco meno che adolescente. Non volevo leggere perché in casa si leggeva molto. Giocavo a calcio e pensavo alla ragazzine. Tutto lì. Tronfio del mio andare contro corrente, del mio essere terra terra. Le cose erano semplici, non complesse come le insegnava papà. Papà che nel frattempo osservava tutto questo con pazienza, convinto che fosse una fase. E così fu. Come mi si aprì un po’ di mondo con il liceo, i libri arrivarono. Mi servivano per contestare, perché qualcuno aveva già detto quelle cose, prima di me, molto meglio di me.

Ero affascinato ed inibito. Volevo scrivere anche io cose di quel livello. Volevo contribuire, fare il mio. Mi prese quella stessa ansia che mi prendeva alle assemblee al liceo: volevo prendere la parola ma non mi sentivo all’altezza.

Un giorno la parola la presi. Avevo appena finito “Un viaggio che non promettiamo breve” di Wu Ming 1. Su twitter era tutto un fiorire di idee, analisi, esegesi di quel libro.

Aprii un word e mi misi a scrivere. Il pezzo mi uscì quasi di getto. Lo postai sul blog, scrissi un tweet con l’hastag e il link. Avevo buttato il mio sasso. Già mi pareva un successo averlo fatto.

Dopo qualche ora trovai una notifica sul cellulare: il mio tweet era stato rilanciato dall’autore. Poco dopo mi arrivo una sua risposta: mi ringraziava. Nel giro di una settimana un post di Giap linkava, fra le varie recensioni al libro, il mio blog.

Capii che la deferenza era un concetto sbagliato. Era un blocco. Un atteggiamento che nn favoriva la fluidità, con un qualcosa di vagamente reazionario.

Questa è la mia storia.

Mi sono domandato quanto abbia di universale, quante persone potrebbero dire “anche per me è stato così”. Poche, penso. Ma non credo che sia questo il punto.

Il punto – sicuramente uno fra i tanti – è smontare pezzo a pezzo tutta la narrazione che fa della “rete” una entità a sé stante. “La rete dice che…” è una sorta di moderno animismo.

La rete è fatta da tutti quelli che che vi accedono. Se è violenta, ingiusta, discriminatoria, è perché chi la usa è così.

Se costruisce reti di solidarietà, di approfondimento, di mobilitazione è perché non tutti quelli che la usano sono così.

Se la mia esperienza mi ha insegnato qualcosa è che non bisogna mai mollare.

Dentro o fuori la “rete” che sia.

carta e penna

Da parecchio non scrivevo con carta e penna. Qualche sera fa, un vecchio meccanismo si è rimesso in moto.

Ricopio

Sabato sera.
Guardo “Uomini e no” in tv. Su RaiStoria, rete che a volte ti para il culo.
Prima, interessante trasmissione, su Totò. Bella nonostante la conduzione di Paolo Mieli che però, in questo caso, parlando di cinema, ho quasi apprezzato. Ha fatto alcune considerazioni su Totò che ho condiviso.
Venendo al film ricordo il libro di Vittorini. Come spesso mi capita,  del libro ricordo le atmosfere. La trama invece, al di là dei fantomatici “sommi capi” e del contesto storico, ha per me un ricordo lacunoso.
Scrivo e non seguo il film, ma tanto mia figlia me ne ha fatto perdere una buona parte. C’è il grande Flavio Bucci.

1510254177739_Bucci
Flavio Bucci in “La proprietà non è più un furto”  film del 1973 diretto da Elio Petri

 

L’ho sempre visto in film di livello. Sguardo mai vuoto, mai lì per caso. Una faccia ai confini della maschera, sempre presente. Un attore che vedi e capisci cosa vuole dire esserlo. Memorabile il monologo iniziale de “La proprietà non è più un furto”. Il ragionier Total e tutto il suo disagio. Tutta la sua nevrosi. Quel film di Petri ti fa percepire come naturale conseguenza del sistema economico – e di conseguenza culturale – in cui si vive, una nevrosi ed una alienazione che, viste per quello che sono, valutate in “valore assoluto”, sono quanto di più ansiogeno ci possa essere.
È così. Lo dice bene anche Mark Fisher in “Realismo Capitalista”. È un mondo assurdo, tanto quanto può esserlo un mondo che non pone freni al cinismo.
Ma non ci sono alternative, e fuori da questo sistema sarebbe peggio. Intanto ci teniamo un sistema di merda che miete vite umane. E nemmeno come stretta necessità, ma come evento collaterale. Fossero gli zombi o gli alieni de “La guerra dei mondi”, potrei capire.
Il capitalismo miete vittime con la leggerezza dell’inconveniente. È chiaramente una conseguenza delle politiche predatorie messe in atto, ma è un corollario. Chiaro che se sfrutti il lavoro trattandolo come una merce qualsiasi (e “Il lavoro non è una merce”, come argomenta benissimo il prof. Gallino), crei le condizioni per le quali questo accada.
A tal proposito, visto il proliferare di questo virus, chiamato “Corona virus”, mi sono chiesto cosa potrebbe accadere – o meglio: cosa temo che accadrà – quando questo virus (non particolarmente letale, a quanto ho capito) infetterà uno stato senza assistenza sanitaria pubblica.
Stati Uniti d’America. Non so quante decine di milioni di persone ne sono prive. Ho un ricordo vago del video dei Rage Against the Machine, “Sleep now in the fire”, in cui c’è un gioco a premi grottesco e la domanda posta è proprio questa.
La sanità pubblica non è solo questione di civiltà e umanità. È anche un servizio essenziale – forse IL servizio essenziale – di ogni forma di vita associata. È l’argine alla barbarie, al “si salvi chi può” neoliberista.

Questo avevo in testa, ed era un sacco che non scrivevo con carta e penna (cazzo, ho comunque dovuto cambiarne tre: due bestemmie a cambio).

Prima, mentre finivamo di cenare, stavo guardando Blob su RaiPlay. Un Blob sul 1970. Si è chiuso con Pasolini. Intervistato in non so quale trasmissione,un ragazzo del pubblico gli chiese, con il piglio di chi non si fa problemi a porre a Pasolini questioni di coerenza (e credo che chiunque possa essere legittimamente interrogato su tali questioni), come conciliasse il suo essere anti sistema ma poi, nel caso specifico, farsi distribuire i film da una grande casa di distribuzione.
Pasolini inizia a rispondere con il piglio di chi sa che dalle questioni di coerenza, nessuno è al riparo. Risponde perché a queste domande si risponde dando il giusto peso.
Il regista dice di essere perfettamente consapevole di questa contraddizione e di riconoscerla come tale. Ha valutato le alternative e non ce ne sono, se vuoi continuare ad esprimerti. Il “suicidio culturale” è la alternativa.
Pasolini riconosce la dignità e il peso di questa scelta, ma non è la scelta che ha fatto lui. Ha scelto di accettare la situazione, consapevole del suo messaggio e del suo peso.
“È un braccio di ferro”, dice, fra lui, che trasmette un messaggio anticapitalista, e chi lo produce e distribuisce, che nel capitalismo ci sguazza.
Il peso, la portata del tuo messaggio è la forza che sei in grado di mettere nella sfida a braccio di ferro.
La capacità di omologarti e di renderti innocuo dal punto di vista politico, è la forza che imprime l’avversario.
Tutto qui.
Forse ci proverei pure io.

unnamed

Un post qualunque

Ricordo uno striscione degli studenti della Bicocca.
Faceva caldo quel giorno. Non ricordo perché fossi lì. Forse è successo nel periodo in cui in Bicocca ci lavoravo.
Lo striscione diceva: “il sapere non è fatto per conoscere, ma per prendere posizione”, firmato Michel Foucault.
Foucault che dovrei leggermelo bene, Foucault che dovrei studiare. Conosco le sue teorie, ma posso dire che ne ho una infarinatura. So in quale contesto si inseriscono e di cosa parlano. So quale è il pensiero che ci sta dietro, ma non lo ho studiato. Dovrei farlo, anche perché quel poco che ho letto mi ha affascinato. Tutto il discorso sul controllo, sul fatto che non è necessario che in una società iper controllata, ci sia effettivamente qualcuno a controllare. Basta dare questa idea. Il singolo non saprà se effettivamente in quel momento stanno controllando proprio lui. Quindi si comporterà come se così fosse, quindi starà all’interno delle regole, quindi sarà docile (e questo l’ho letto nel bellissimo “Realismo Capitalista” di Mark Fisher). Il concetto è quello del Panopticon, il nome dato al “carcere ideale” (1791). Una struttura all’interno della quale tutte le celle sono rivolte verso il casotto del guardiano. Il guardiano vede ogni cella. Da ogni cella è possibile vedere solo la postazione del guardiano. Il carcerato non saprà mai se il guardiano in quel momento sta guardando lui o qualcun altro, quindi si comporterà come se così fosse.

external-content.duckduckgo.com

Ecco: più o meno questo so. Seppur riassunto, quest’è.
Quella frase riportata dagli studenti della Bicocca mi colpì. Infatti me la ricordo ancora.
Qualche giorno fa ho iniziato a ragionarci su per sottrazione. Mi piace ragionare per sottrazione: è un modo per vedere le cose da angolature opposte.
Se il sapere serve per prendere posizione, mi sono chiesto cosa accade a chi non sa. Non prende posizione.
Ne ho di esempi così. Spesso vedo persone che galleggiano. Non leggono e non hanno una posizione. Non una precisa. Se proprio pungolati allora ne approntano una, frutto di buonsenso, ragionamenti che non si chiudono, pensieri che non vanno a fondo. Fin qui tutto ok. Non sanno. Non si schierano.
Da qui però parte una diramazione, che, sulle prime, mi aveva portato a valutare il mio ragionamento per sottrazione come erroneo. È pieno di pareri e prese di posizione frutto della non conoscenza.
Una settimana è passata dallo sciagurato “giorno del ricordo”. E di posizioni ne ho sentite. Con il piglio di chi finalmente si può togliere un peso, dire la sua, rompere il giogo della cultura dominante che ha “oscurato la tragedia delle foibe”; manifestazioni bipartisan hanno riempito giornali e tiggì.
Da dove nascono quelle posizioni? È gente che non sa, ma che si è schierata. Forse allora non è vero.

Invece è vero. O almeno mi pare.
Mi pare di vedere un prodotto politico nato apposta per questo genere di posizione. La posizione di chi non sa, di chi non ha voglia di leggere, di chi non è avvezzo all’approfondimento, ma al contempo non prova alcuna deferenza nei confronti del dibattito pubblico; parlo di quella deferenza doverosa, che è frutto del riconoscimento del sapere altrui e che si pone in una prospettiva di scambio con l’interlocutore.
Un prodotto politico tutt’altro che nuovo. Dal 1946 al 1945 visse il Partito dell’Uomo Qualunque, che ottenne un buon successo alle elezioni regionali siciliane del ’47 (quasi il 15%). I suoi punti di forza erano l’antipolitica, un liberalismo conservatore e un acceso anticomunismo. Faceva leva sulla semplificazione delle cose, insinuando l’idea che l’approfondimento fosse un sistema per nascondere la realtà, un modo per raggirare il popolo e, di conseguenza, non dare seguito alle sue sacrosante istanze “de panza”.
Andando indietro, anche il fascismo nacque e si presentò come antipolitica: un programma spiccio per fermare i rossi, per rimettere ordine, per usare il pugno di ferro contro gli scioperi che imperversavano. Il fascismo non si presentò come una dittatura – lo racconta brillantemente il prof. Canfora in “Fermiamo l’odio” – ma piuttosto come un sistema liberale in versione forte ed autoritaria. Di conseguenza tutta la sua antipolitica, il suo ricorrere a soluzioni semplici e immediate, fece presa senza far sì che chi vi aderisse si ponesse il problema di star sostenendo una dittatura. Si era semplicemente stufi di tutto quel caos e Mussolini e i suoi erano la risposta più ragionevole ed immediata.
Ai giorni nostri il Movimento 5 Stelle è il partito che ha rappresentato nel modo più esplicito il tema dell’antipolitica e della semplificazione, con i risultati recentemente visti. Lo stesso fa la Lega che, pur non parlando apertamente di antipolitica, offre soluzioni semplici ed efficaci che, come schema, si basano sempre sul fenomeno così come appare: contrasto del fenomeno, possibilmente con la forza, senza chiedersi come mai quel fenomeno si verifichi. (esempio: fermiamo l’immigrazione, ma non chiediamoci mai perché le persone migrano) .

In tutti i casi citati, le persone si schieravano. A seconda delle circostanze anche in modo esplicito, con furore, sicuri di star prendendo posizione. Per fare questo serve il prodotto politico giusto.
Foucault ha ragione? Certo che ce l’ha, altrimenti non si spiegherebbe la necessità di avere dei prodotti politici che diano la illusione di stare partecipando, di schierarsi. Tutta quella massa che non sa e che quindi non si schiera, deve avere un peso politico. È una miniera di voti fondamentale per fare sì che le cose non cambino e che gli interessi dominanti restino tali e siano garantiti.

Gamificazione, working class, foibe

Cazzeggio lavorativo. Apro youtube e vago. È proprio vera la questione della “gamificazione”. Si innesca la dinamica della slot machine, del videopoker. Schiacci, aspetti un secondo, rischiacci. Sete di numeri e simboli. Attendi il premio. Così come il like sul social. E continui ad aggiornare.
Ho capito che è così anche se non ho mai giocato al videopoker, non ho Facebook, e il mio uso dei social è limitato a Twitter (sempre meno) e Mastodon, che però mi piace proprio perché esula da quel meccanismo di botta e risposta, di sentenze sparate. E poi la qualità dell’utenza è sicuramente un’altra.

Prima
Una pausa sigaretta. Parlavo con il batterista del mio gruppo, che, casualmente, lavora nello stesso palazzo in cui lavoro io. Quando ci vediamo il contesto scompare e siamo in sala prove, su un palco, in uno studio di registrazione fuori milano, quasibrianza. Del contesto ci frega veramente poco. Siamo diversi, ma abbiamo entrambi bisogno di aria, di rock, di Beatles e di tutto quello che secondo noi suona bene.
Concordavamo sul fatto che il social “gamifica”, restituisce una fallace partecipazione. Tutti esperti e, al contempo, tutti privi di preparazione. Ma tanto non serve. Ci si arriva con l’intuito, con il buonsenso. Chi affronta un problema con specifiche competenze è uno che nasconde qualcosa. Sicuro.

Non troppo tempo fa.
Un genitore, fuori dalla scuola, mi dice che i giovani di oggi sono maleducati.
Rispetto a cosa?
A come eravamo noi
Su che basi?
mi guardo intorno, li vedo
non è un campione valido
nessun campione è valido
certo che sì: si può ponderare e puoi stimare l’errore. In base al campione
chi lo dice?
la statistica
per me non conta. Conta solo se intervisti tutti
quello si chiama censimento
Quella conversazione mi stava dando la fastidiosa sensazione di insegnare qualcosa a qualcuno. Mi poneva su una cattedra che non volevo assolutamente. Ho troncato. Avrà pensato di avere ragione. Tempo fa mi ci sarei amminchiato. Ora non mi interessa. Sbaglio, ma non mi interessa.

Poco fa.
Vado al piano sopra dove c’è la cucina. Ho un paio di cialde per farmi un caffè. Ne porto sempre due perché spesso una viene inghiottita dalla macchinetta senza erogare alcunché. E se non ne ho due mi tocca rifare le scale. Questa volta va al primo colpo.
Arriva un ragazzo che lavora qui. È uno che non avevo mai inquadrato bene e tutt’oggi qualcosa di lui continua a sfuggirmi. Però, trovandoci a parlare durante le pause, ho capito che è un compagno. È stato lui a consigliarmi i video di Federico Frusciante su youtube. Uno in particolare. Mi pareva uno insulso, invece ci sta dentro. Del resto mi devo fidare di più di chi ha tatuato sull’avambraccio “working class” con due martelli incrociati. Ormai parliamo solo di politica quando ci vediamo. Mi pone subito un quesito:
sai, sono indeciso se sperare in un gruppo terrorista che colpisca in modo mirato, o se sperare in questi virus così da radere al suolo tutto
io sono per la prima – gli rispondo – anche se, leggendo quanto scritto da Enrico Fenzi, forse l’unico intellettuale nelle Brigate Rosse, se decidi di usare la violenza devi avere assolutamente chiaro quello che vuoi fare, quale è il tuo piano, quali sono i tuoi obiettivi a lunga, corta e media scadenza. Altrimenti è peggio ed è meglio non usarla
ah sì, Fenzi. Mi pare abbia scritto un libro
Armi e Bagagli. Consigliatissimo

Il compagno-collega con tatuato “Working Class” sull’avambraccio ha ragione. Il dubbio che lui si è posto penso se lo sia posto chiunque abbia una coscienza politica degna di questo nome. Declinato in modi diversi, l’essenza è sempre quella. Si usa il tempo per spiegare, per fare le cose in modo oculato, oppure si va con lo spadone e fine della storia? (tenendo sempre conto, proprio perché si conosce la Storia, che lo stesso spadone può fare fuori anche te).
Non ho voglia di spiegare. Per vari motivi. Il primo è che costa fatica. Non è il primo motivo in ordine di importanza, ma in ordine di immediatezza. Quando penso “ma questo cosa ha in testa? Quale ragionamento potrebbe colpirlo? Quale esempio chiarirebbe il mio punto di vista?” mi sento già stanco. Penso a tutte quelle persone con una testa tanta e inizio a pensare che voglio parlare solo con loro. Stanco e colpevole perché il “tanto cosa vuoi che capisca?” ha una stretta parentela con “tanto non cambia mai niente”.
Poi arrivano altri problemi: come fare in modo che le tue parole non arrivino ex cathedra, come non scadere nel nozionismo, come non mandarlo a ‘fanculo.
Una fatica che il vero militante farebbe sempre.

Io non lo sono. Mi piacerebbe esserlo. Mi limito ad avere una prospettiva sempre dal basso.

A tal proposito fra poco sarà il 10 febbraio. Il giorno del ricordo dei martiri delle foibe. Una canea di cazzate e falsi storici Un nazionalismo pret a porter basato su un falso e fastidioso vittimismo.
Discorsi sulla pulizia etnica ad opera degli jugoslavi nei confronti degli italiani che avevano la sola colpa di essere tali. Persino il padre della patria Napolitano usò il termine “pulizia etnica” parlando di una lotta di liberazione. Una lotta contro i burattini fascisti e i burattinai nazisti.
Vi piacerebbe molto, a tutti voi patrioti d’occasione, che fosse andata così. Ma così non è andata. Si lottava contro un nemico violento e sopraffattore, che aveva un piano ben preciso. Si lottava tutti insieme, antifascisti italiani, partigiani di Tito, oppositori di ogni colore e razza, perché non ce ne frega nulla della provenienza. Ci frega contro chi si combatte e cosa si vuole costruire.
Dentro a queste vostre linee di demarcazione frontaliere disegnate su una mappa, vorreste mettere insieme il ricco e il povero, lo sfruttatore e lo sfruttato, il padrone e l’operaio, così che i primi possano continuare a vessare i secondi.
Quando parlate di foibe e di sterminio – citando cifre a cazzo, senza fonti, frutto del “sentito dire” – state parlando di una lotta combattuta contro il nazifascismo. State parlando di popolazioni occupate da un giorno all’altro dall’esercito fascista che si sono trovate a non poter più parlare la loro lingua, a dover “italianizzare” (ma che cazzo vuol dire?) il proprio nome. Persecuzioni e vessazioni di ogni tipo contro chiunque non accettasse di non essere più slavo ma italiano. Quando abbiamo iniziato a vincere e voi schifosi vi siete ritirati alla bell’e meglio, cosa pensavate che vi sarebbe successo? L’avete pagata: avete pagato la vostra arroganza, la vostra cultura di sottomissione e di morte. Fatti i conti – quelli veri, quelli giusti – non l’avete pagata nemmeno troppo cara.

Io sto con i partigiani. Sto con chi ha combattuto i nazisti (i fascisti andavano a ruota dei tedeschi: in realtà non hanno mai deciso niente autonomamente) .
Non mi interessa di che nazionalità fossero né a quale etnia appartenessero.

Questo non lo capirete mai.
O forse, quando lo capirete, per voi sarà tardi.

unnamed

quando posso, come posso

Ieri il giorno di febbraio da segnare sul calendario. Ovviamente non è un giorno preciso, non è sempre lo stesso. È quel giorno in cui senti il calore, il primo calore. E solitamente capita in febbraio.
In “Amarcord” si bruciava sulla pubblica piazza la strega dell’inverno ed erano tutti imbacuccati e sorridenti.
Il giorno è tiepido, ma la sera…beh, la sera la paghiamo. Nebbia, freddo, acqua sospesa. Ti affacci e non vedi nulla, nemmeno quello che poche ore prima ti pareva famigliare. Non molto altro da fare se non fumare un po’ e andarsene sotto le coperte, ché Guccini è finito e, dopo tanti anni, Hunter Thompson è tornato. Si vede che bisogna morire per essere pubblicati. In Italia, parlo di 10-15 anni fa, c’era solo “Paura e Disgusto a Las Vegas”. E basta, mi pare. Il suo libro sugli Hell’s Angels ho dovuto faticare per trovarlo. Come spesso succede, la Shake edizioni non delude.
Poi Thompson si è suicidato nel 2005 e allora via di pubblicazioni inedite, almeno per noi: qualcuno mi ha detto che, nelle librerie si San Francisco, di libri suoi ce ne erano “un botto”.
Ma prima è venuto Guccini. Sì, perché dopo l’avventura con Allen, “Come si diventa nazisti”, avevo il bisogno di andare un po’ sul semplice. Su qualcosa che scorresse via.
Lessi “Cronache Epifaniche” che ero un ragazzino. Ero stato folgorato da Guccini. Mi piaceva quello che diceva nelle sue canzoni, mi piaceva quello che diceva nelle interviste. Non fu una lettura facile, infatti non ricordo granché.
“Tralummescuro” è il suo ultimo libro. Mi è stato regalato a natale; ha dovuto dare la precedenza sia ad Allen sia ad un libro celebrativo dei 50 anni dalla rivoluzione sovietica. Poi è arrivato il suo momento.
Tralummescuro è l’ora del tramonto. Un po’ prima del tramonto vero e proprio. Il momento della luce che piano piano se ne va, lasciando una atmosfera sospesa, dolce, vagamente malinconica.
Guccini racconta della vita nel suo paese, Pavana, appennino tosco emiliano. Racconta di un mondo che non c’è più. Non si parla di abitudini, di inclinazioni. Si parla proprio di un mondo: niente acqua calda, si mangia quello che c’è e, ogni tanto, la fame fa capolino. Niente frigo, spostamenti a piedi sulle mulattiere. Non è semplicemente uno stile di vita, una preferenza. È un modo di vivere dettato da condizioni profondamente diverse.
Guccini resta un grande. Non ho trovato traccia di “ai miei tempi era un’altra cosa”. Cioè: sì, era un’altra cosa, ma non è che questa frase abusata venga scritta sottointendendo – come spesso mi capita di sentire – che era anche meglio. Era diverso e basta. È una considerazione.
Mulattiere non più utilizzate inghiottite dalla vegetazione, gente che va via dal paese, case in vendita.
Ancora più ammirevole Guccini: non è che quel mondo è finito perché ci si è fatti vecchi e ora ci sono i giovani. Questo sarebbe normale, la ruota del tempo. Qui è diverso: Guccini è l’ultimo o uno degli ultimi ad aver vissuto e respirato a fondo un mondo che non c’è più. Sta scomparendo. Non si parla di valori persi. Quello è una conseguenza. Mancano le persone, proprio fisicamente non ce ne sono più .
Ripenso a quante volte ho sentito, spesso da gente più giovane di me, che oggi i ragazzi non sono come noi alla loro età. “Maleducati, arroganti, privi di valori” e via di cazzate consolatorie, per essere sicuri che la nostra giovinezza è stata diversa, ha avuto più valore, è stata più vissuta. Forse solo perché oggi sono tutti sullo smartphone, o perché non ascoltano la musica che ascoltavamo noi.
Considerazioni campate per aria, atti di accusa verso realtà che non si conoscono, ma semplicemente “ci si è fatti un’idea guardandosi attorno”. È il solito mischione fra vissuto personale e pseudo riflessioni generazionali. Un tutt’uno indistinto. Miscellanea auto assolutoria, figlia di una esistenza priva di reali punti di riferimento.
Guccini, in “Tralummescuro” è testimone di un mondo che non c’è più. In quel mondo ci è cresciuto, ci si è sporcato, punto, sbucciato. Poi si è allontanato per andare a suonare la chitarra in città. E ora è di nuovo lì.
Se in questo libro c’è malinconia è proprio nascosta, come un condimento leggero leggero che senti solo come retrogusto, quando hai andato giù il boccone. Per il resto è una testimonianza, viva, vissuta, sentita. Il suo appartenere a quella cultura contadina e montanara è un dato di fatto, talmente sentito da non aver bisogno di fare confronti con l’oggi.
Le vere appartenenze sono sicure. Se ne fottono dei confronti. Ci sono e basta. Non hanno l’urgenza di trarre classifiche e conclusioni.

Quanto a me mi sono goduto un pochino questo sole leggero, questo cielo mosso da un vento freddo.
Guardo in alto, fra i palazzi, e vorrei andare chissà dove o forse vorrei solo stare in giro con le mie donne.
Per il momento resto. Pianifico la prossima partenza, in modo che tutto vada bene.

Buon febbraio
il mese del “non ancora, ma manca ormai poco”

“così parte la nostra primavera”

Apprezzo molto che su Mastodon non ci sia la canea di pareri, anatemi ed opinioni a caldo su quanto appena fatto da Trump. Su Twitter ho già visto analisi di poche righe, domande retoriche, sentenze lapidarie. Situazioni internazionali intricate, risolte in 140 caratteri (manco servono i 280).
Inutile dire che Trump sia una merda, ma in ogni caso lo premetto a scanso di fastidiosi equivoci. Qui il punto non è, per me, valutare l’operato di Trump. Il punto è questa mole impressionante di ignoranza travestita da intuito e buonsenso. Questioni di contesti, certo, e non di epoche. Anche di mediocrità, ma quella penso che ci sia sempre stata. Il problema è, forse, quando la mediocrità diventa metro di giudizio.
Il social ha senso solo se declina la sua immediatezza nel comunicare eventi. Il problema è che l’immediatezza nel comunicare qualcosa diventa anche immediatezza di analisi. Le due cose non stanno bene insieme. Infatti leggo una marea di cagate.

Si inizia l’anno così, avvolti dalla nebbia. E dallo smog. Una trasmissione radiofonica ha sconsigliato di uscire a correre. Persino di uscire a camminare. E sconsiglia anche di aprire le finestre. Troppo smog, troppe polveri sottili.
In questa mattinata libera farò qualche esercizio qui in casa e finita lì. Volevo correre e sudare, sudare e correre. La mia catarsi. Invece niente. Milano ti blocca, ti tarpa. Sempre la solita storia.

Mi chiudo in casa e leggo. Cosa che potrei fare benissimo in una casa isolata, fuori dalla città, magari con vicino il mare. Potrei andare a correre fra una lettura e l’altra. Potrei prendere la macchina ogni volta che voglio, senza preoccuparmi del parcheggio quando ritorno.

Potrei potrei….

Potrei, oggi, finire il libro “Come si diventa nazisti” di Allen. Ci fu consigliato anni fa, durante una visita a Casa Cervi. Un ragazzo ci ha fatto da Cicerone e alla fine ci ha consigliato questo libro. Comprato, ha poi riposato per anni nella libreria in sala. Ci passavo vicino e ogni volta mi ripetevo che lo avrei letto. Poi non so cosa sia scattato, ma l’ho iniziato. E ora è quasi finito.
Il libro racconta l’ascesa al potere dei nazisti in un piccolo paese della Germania. L’ascesa avviene praticamente senza opposizione alcuna.
Come dice argutamente Gallino nell’introduzione alla edizione Einaudi, la storia di questo piccolo paese non vuole stare a dimostrare che potrebbe accadere di nuovo, che siamo alle porte di una dittatura, ma “esprime qualcosa che per un verso è perfino più inquietante […]: trasmette la convinzione che la distruzione di una comunità politica, la fine della democrazia, è sempre possibile, che non ci si può minimamente illudere – come troppe volte ritualmente si afferma – che a sbarrare la strada a tale possibilità siano sufficienti le condizioni economiche affatto differenti, il livello più alto di sviluppo economico, le istituzioni forgiate in Europa dopo il ’45 a difesa della democrazia, una supposta maggior maturità democratica dei cittadini”.
È forse quest’ultimo punto il centro di tutto. La democrazia televisiva, quella dei social mainstream, quella secondo la quale tutto si esaurisce nel “posso dire quello che voglio, nessuno mi arresta, quindi c’è democrazia” è la vera distruzione.
Penso a quanti sarebbero d’accordo con le affermazioni di Gallino ma poi, di fronte a manifestazioni, picchetti, scioperi e conseguenti disagi, invece di individuare il fattore partecipativo di questi eventi – e quindi l’aspetto democratico – spostano l’attenzione sul fastidio percepito personalmente, sull’appuntamento importante saltato a causa del treno che non è arrivato, sul disagio provato vedendo una macchina danneggiata durante scontri con le forze dell’ordine (chiaramente il pensiero è: potrebbe essere la mia!), sull’inutilità di picchetti mattutini per fermare una produzione.

Penso ad una scena di qualche anno fa. Casa di amici. Interno sera. Parlo con il lui della coppia. Siamo seduti al tavolo da pranzo di casa loro. Un bicchiere di grappa in mano. Io avrei voglia di una canna ma loro non fumano. Lui mi parla; alle sue spalle molti scaffali pieni di libri. È preoccupato per la situazione italiana. Il pericolo delle destre, la pochezza di alternative, Berlusconi impresentabile con le sue battute sul sesso.
Cerco di dire la mia, ovvero quello che, più o meno, dico sempre: in Italia le cose succedono. Ci sono esperienze di lotta e resistenza che magari nascono da un sopruso piccolo e locale e piano piano diventano più ampie. Si connettono ad altre lotte in altri luoghi. Diventa chiaro, attraverso la lotta, che le cose ingiuste non accadono perché le persone “sono cattive” (e quindi basterebbe sostituirle con quelle “buone”), ma accadono perché il sistema è ingiusto. Diventa quindi chiaro che – al di là che si tratti di un nuovo traforo, una trivellazione, un passante inutile, uno spostamento di produzione – la matrice che produce queste cose è la stessa.

“Perché i NoTav dovrebbero solidarizzare con i comitati NoGrandiNavi di Venezia? Se fosse solo una cosa locale cosa gli interesserebbe delle grandi navi a Venezia?”

Durante quella conversazione avrei voluto sbroccare, alzare la voce, chiedere cosa voleva dire “essere di sinistra” se poi non si hanno strumenti e sensibilità per capire quali possono essere le vie d’uscita a questa situazione.

Studiare, capire, studiare ancora. Ricordare sempre che spesso la prima, primissima manifestazione di un cambiamento non ha una bella faccia, non è piacevole da vedere, come ha detto benissimo Tonino Loris Paroli nel suo bel libro “Andate e ritorni“. A volte assume forme che istintivamente ti allontanano. Ma bisogna metterci le mani lo stesso. Altrimenti si sta da un’altra parte. E, per quanto mi riguarda, non è quella giusta.

La nebbia ancora non si è alzata. Resta lì a mezz’aria. Mischiata allo smog, al freddo, a tutti i “nessuna voglia di ricominciare” che ho sentito in questi giorni.

Io torno ai miei libri, alle mie cose.
Aspetto che la nebbia si alzi, che arrivi il tiepido. Non manca poi molto.
La primavera mi carica. La fruibilità degli spazi aperti si moltiplica. Così si moltiplicano gli incontri, le chiacchiere.

E poi mi fa sempre pensare ad un passaggio di una canzone della Banda Bassotti, “Mezzi litri e canzoni

“da domani i padroni in galera
così parte la nostra primavera”

Grazie anche per questo Sigaro. Ho letto il libro che parla di te e mi sono commosso.
Fra tutte le testimonianze raccolte colme di stima, affetto e lotta, una mi ha colpito.
Diceva “Saremo il tuo orgoglio”

Ce la mettiamo tutta.

115823884-4d465bb7-0672-40ae-bb9f-97d09df6f89e

lo avrei visto

Metto su un’altra felpa. Il sole d’inverno in spiaggia sa essere beffardo. Riesci a stare solo con la felpa o addirittura in maglietta perché senti caldo, poi, di colpo, hai dei brividi e ti tocca coprirti. Oppure i brividi non li senti e te ne accorgi a fine giornata.
Le notti però sono calde: merito del camino, del piumone e dei termosifoni accesi.
Mi infilo gli occhiali per leggere – già: questo momento è arrivato pure per me – e leggo “La Bomba” di Enrico Deaglio, libro sulla strage di Piazza Fontana.

Quest’anno sono 50 anni da quella strage e mi ha dato veramente fastidio non poter essere presente alle manifestazioni. Purtroppo, quel giorno, stavo tornando in treno da una trasferta di lavoro. Sono arrivato alla stazione centrale di Milano che era sera. A quell’ora le celebrazioni erano finite. Sono andato a casa.

Ho approcciato il libro di Deaglio con lo spirito del compendio. Ho letto, riflettuto, parlato con chi c’era e letto ancora su quella strage. Ho già letto altri libri di Deaglio e mi pare di ricordare il suo approccio alle cose, per quanto documentato e scorrevole, figlio di una sinistra un po’ troppo istituzionale.
Sospendo la lettura di “Come si diventa nazisti” di William Sheridan Allen e passo a “La Bomba”. A volte esercito ancora il diritto di saltare da un libro all’altro di cui parlava Pennac. Prima lo esercitavo in modo quasi compulsivo. Ora come eccezione.
Ho voglia di leggere di quella storia, di quella bomba, di quella Milano fine anni ’70 di cui mi hanno raccontato i miei genitori e i loro amici.
La lettura scorre, al caldo, sotto al piumone, dopo giornate passate all’aperto.
Deaglio racconta non solo dell’attentato ma anche di quella piazza che, nel ’45, vide Mussolini salire le scale dell’arcivescovado per trattare una tregua con i partigiani. L’incontro durò pochissimo. Nessuna trattativa. O resa o morte. Mussolini ridiscese le scale scortato dai nazisti (incontrando un giovane Pertini che le saliva).
Si parla di quella stanza della questura di Milano in cui Pinelli venne interrogato e di quella finestra da cui fu buttato.
C’è una vulgata, una narrazione, una leggenda metropolitana o quello che vi pare, sul rapporto tra Pinelli e Calabresi, il commissario dell’ufficio politico che conduceva l’interrogatorio e che già se la pigliava con gli anarchici per bombe – precedenti a quella del ’69 – che in realtà avevano messo i fascisti.
Si racconta che tutto sommato si rispettavano, che si erano regalati dei libri. Insomma che, nonostante fossero su due lati distinti ed opposti della barricata, c’era un rispetto umano. Da lì Calabresi la brava persona, quello che sì, faceva il suo sporco lavoro ma, nello specifico di quella bomba, era stato messo in mezzo dai servizi segreti, dagli uomini dell’ufficio affari riservati del Viminale che avevano contatti e legami con i fascisti di Ordine Nuovo (quelli che la bomba in piazza Fontana l’hanno messa per davvero) e che dovevano assolutamente far ricadere le colpe sugli anarchici e non sui fascisti.
Continuando su questa perniciosa strada viene fuori che Calabresi conduceva l’interrogatorio ma non era presente nella stanza nel momento in cui Pinelli è stato buttato di sotto. Era nella stanza di Allegra, il suo capo diretto.
Insomma Calabresi c’è, ma non è responsabile, fa lo sbirro ma non c’entra, ferma gli anarchici – contro i quali non c’era nessuna prova – ma li rispetta, trattiene persone in questura illegalmente, ben oltre il fermo previsto di 48 ore, senza avvertire nessun magistrato, ma è una brava persona.
Il fatto che poi anche Calabresi venga ammazzato pochi anni dopo, nel ’72, fa sì che si crei la storia delle due vittime, dei due opposti accumunati dall’essere stati uccisi da forze oscure, da circostanze non chiare. Vittime. Entrambi. Fine della storia.

Ammetto che anche io, negli anni, ho creduto che Calabresi non fosse nella stanza. Invece pare che non sia così.

Premessa doverosa: che fosse o meno nella stanza in cui stavano interrogando Pinelli, non cambia di molto le cose. Anche se non fosse stato presente, era sicuramente al corrente di quando accaduto e, soprattutto, di come era accaduto. Non ha detto nulla, ha perorato la causa del “malore attivo” e anche del suicidio dell’anarchico Pinelli.
Le questure, così come le caserme, sono luoghi omertosi. La verità resta lì dentro. Si fa scudo, si proteggono i propri sodali, anche se qualcuno ci ha rimesso la vita.
Pinelli era rimasto l’ultimo della nutrita schiera di anarchici portati in questura dopo la bomba in piazza Fontana. Gli altri, man mano, erano stati rilasciati. Lui era l’unico rimasto. Anzi no.
Erano in due.

Balzo in avanti di svariati anni. Primavera 2015. Qui ci sono. Sono adulto, attivo e, in quanto tale, vado in corteo contro l’Expo nella mia città. Un evento inutile, mangia soldi, cementificatore e imposto dall’alto.
Manifesto tutta la mia contrarietà. Fino alla fine. Fino a quando non iniziano gli scontri. Resto un po’ a guardare, però sono a viso scoperto, disarmato e senza nessuna protezione ai lacrimogeni. Resto finché posso, poi torno a casa.
Vedo le immagini in rete e in tv e non posso non notare un manifestante in carrozzina, con casco, agguerrito. Partecipa agli scontri con coraggio.
Qualche giorno dopo sento una sua intervista. Viene intervistato in merito alle violenze di piazza e lui fa un discorso bellissimo sulla violenza nel nostro mondo, parla di chi muore in mare, della normalità di certe morti e di certe stragi e di come una vetrina rotta, una macchina che brucia, qualche mazzata con i poliziotti, suscitino una indignazione mai vista prima, nemmeno davanti a gente che annega o muore congelata cercando di entrare in Italia.
Non fa una piega.
Io ragiono come lui.
Come è che si chiama?
Lello Valitutti

Valitutti….

Mi ci è voluto un po’ per ricordare dove avessi già sentito quel nome. Poi ricordo: film “Romanzo di una strage” (che non sarebbe nemmeno recitato male, se non fosse che ai miei occhi non riesce a togliersi di dosso l’etichetta di “film di regime” proprio perché molto incentrato sul rapporto di reciproco rispetto fra Calabresi e Pinelli).

Erano rimasti due gli anarchici fermati. Pinelli e Valitutti.
Valitutti era lì quando hanno chiamato Pinelli a testimoniare per l’ultima volta. Poi Valitutti, allora ventenne, udì un trambusto dalla stanza di Calabresi. Voci concitate. Poi un tonfo: il corpo di Pinelli che cade dal quarto piano.
Calabresi che esce e dice, all’anarchico ventenne, che Pinelli si era suicidato e che fino a quel momento stavano parlando tranquillamente.
Calabresi, per il giovane anarchico, era presente nella stanza quando Pinelli è stato defenestrato.
“Se fosse uscito l’avrei visto”, visto che pure lui era in stato di fermo (illegale) e aspettava nello stanzone che dava sul corridoio.
“L’avrei visto”

Lascio la parola al lui, in questa intervista di qualche anno fa rilasciata a Osservatorio Repressione e che consiglio di leggere.

Penso a questa storia e al freddo della giornata
L’ultima dell’anno.

hqdefault

Bida Maremma

Sedia a dondolo davanti al camino acceso. Lo avessi anche a casa a Milano altro che tv e social. Fissarlo mi fa pensare. E tra una pensata e l’altra ho letto. Ho pensato a quello che ho letto sul sito Giap dei Wu Ming. Hanno spiegato come mai niente più twitter (e, anche, come mai nemmeno un passo su Facebook).
Un post molto lungo, diviso in due puntate. Che a dirla tutta non ho ancora finito. Vari stimoli, varie storie, un pacco di libri da comprare, qualcuno già letto ma da rileggere.
Con loro è sempre così. Ho letto in macchina mentre la famiglia faceva la spesa e la piccola dormiva sul sedile dietro. Ho letto mentre la piccola si addormentava. Fuori una nottata limpida e invernale. Maremma.
Un po’ mi dispiace che se ne vadano da Twitter, ma le loro motivazioni non fanno una piega. Devo dire che anche io, nel mio piccolo, mi sono accorto che qualcosa andava peggiorando. Ogni volta che ho messo la testa fuori dalla mia tribù, ho trovato personaggi inqualificabili, parole a caso, mai entrati nel merito. Ho lasciato stare, perché non ne valeva la pena. Però leggevo ammirato chi non mollava l’osso, chi metteva e rimetteva sempre le cose all’interno della giusta inquadratura. Quell’accanirsi era doveroso. Bisognava farlo. Era l’unico modo per mostrare i limiti di un ragionamento campato per aria, di argomenti sovranisti con mitologie buttate dentro a cazzo.
Da qualche mese mi sono spostato su Mastodon. Capendoci poco all’inizio, ma – penso – carpendone il senso, la logica, l’ossigeno che si sarebbe potuto respirare in una rete decentrata ed autogestita. E, soprattutto, quello che si sarebbe potuto combinare.
È vero quello che dicono i WM nel loro post, quando parlano di compagni che hanno scelto Facebook. Se non sei lì, dove ci sono tutti, è come se tu non ci fossi. Non è vero. È una scelta, ma non è una strada obbligata. Se decidi di stare lì devi attrezzarti per disinnescare tutti i meccanismi che spingono l’utente a servire il logaritmo. Se decidi di stare solo lì allora, forse, l’impresa è impossibile.
Chi fa movimento non sta su Fb. O quantomeno non solo lì. Il Movimento ha una sua vita, si nutre di intelligenze, lotte, solidarietà e fantasia. E ti restituisce tutte queste cose al quadrato. Che si vinca o che si perda, arricchisce te stesso perché arricchisce tutti.

E allora Mastodon. Uso il mio cellulare come hotspot e, in un raro momento di tranquillità in questa vacanza con la famiglia allargata, mi metto di buzzo buono.
Trovo un Toot di @marcomeacci che dice:

Questo primo toot per rilanciare il mio dimenticato blog.
La nuova blogosfera auspicata da @Wu_Ming_Foundt ha forse bisogno anche di blog inutili come il mio.
Un po’ di fatti miei, qualche commento su quello che leggo e su quello che ascolto.
Rilanciare lo strumento con ogni mezzo necessario.
Complicate Traiettorie Emotive
Non è più tempo di essere ex-blogger

Condivido le sue parole e mi accorgo di essere nella sua stessa situazione. Anche io ho scritto ibridi fra la mia vita, le lotte dei compagni, i posti che vedo, quello che mi passa per la testa. Piano piano ho diminuito, fin quasi a smettere. Mi perdevo a leggere. Cercavo di imparare. Poi buttavo giù qualcosa, ma non mi piaceva, non colpiva come quello che leggevo e allora preferivo restare ad ascoltare.
“Rilanciare lo strumento”
Sì, sono d’accordo. Dico anche io la mia.

Rilancio e dico che credo fermamente che essere di sinistra vuole dire essere anticapitalisti. Altrimenti non ha senso. Altrimenti si è altro. Scelte legittime – non tutte – , ma altro.
Ed essere anticapitalisti, per me, vuol dire vedere in tutte quelle ingiustizie, storture, forme di schiavismo, non la malvagità dell’uomo, ma la malvagità del sistema. Pensare che certe cose accadano perché le persone sono cattive non fa altro che individualizzare anche nell’analisi una società sempre più atomizzata.
Pensare che certe cose accadano perché viviamo in un sistema che privilegia il profitto sopra ogni cosa e che attua questo piano attraverso lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, vuole dire, per me, essere di sinistra.
Anzi comunista. O almeno ci provo.
Da comunista penso che la sovrastruttura, quello che giustifica l’esistente sostanzialmente ribadendo l’apparente libertà di cui godiamo, sia pervasiva. Penso che il buonsenso sia il nemico di ogni giustizia sociale e collettiva.
Posto questo, non vedendo strutture in grado di fronteggiare e abbattere lo stato di cose esistenti, credo che sia fondamentale seguire, capire, studiare e sostenere tutte quelle esperienze, quelle “soggettività diffuse” che si muovono su logiche opposte al capitale. Quelle che hanno capito – e, cosa più importante ancora, fanno capire con la pratica – che l’abbondanza si raggiunge mettendo in comune. Che i diritti o sono per tutti o sono privilegi e che il miglior modo per salvaguardarli e tenerli saldi è estenderli al massimo, al maggior numero di persone possibile, così ci saranno sempre più persone a difenderli.

Ecco, questo sono.
Questo penso.
Ascolto, cerco di capire, apro il cervello. So che senza condivisione non c’è conoscenza.
E che “non c’è solidarietà senza rivolta”