una questione di lotta e di prospettive

Premessa: qualche settimana fa mi è stato chiesto un contributo per un progetto sul mondo dei blog. Come sono cambiati, come sono stati influenzati dall’avvento dei social. Traccia libera. Io ho usato tutta quanta questa libertà per raccontare come la vedevo – e la vedo – io

Mi pareva un ottimo modo per tornare a scrivere.

Ecco qui il risultato

Era il 2005. Era appena finita l’estate. I 30 si avvicinavano ed ero stagista in un istituto di ricerca. Fondamentalmente riempivo buchi in quell’ufficio, ma non mi dispiaceva. Avevo molto tempo libero. Aprivo messenger che serviva sia per comunicare con i colleghi nelle altre stanze, sia per cazzeggiare con amici, con la fidanzata. Navigavo anche molto. Spesso senza andare da nessuna parte. Pur con tutto lo sforzo, non ricordo come finii su un blog di tiscali. Lessi qualcosa, trovai qualche compagno. Era un pomeriggio di settembre, ero in ufficio e non avevo molto da fare. La nostalgia dell’estate e del mare mi molestavano come ad ogni settembre

La scrittura per me è sempre stata l’ancora di salvezza. Da ragazzino ho cercato di capire attraverso cosa avrei potuto esprimermi in modo adeguato. Non avevo fretta né ansia di trovare il mio mezzo. Presi a disegnare, ma non ero portato. Mi misero in mano una chitarra, ma mi sembrava difficilissima (solo anni dopo ho capito le sue potenzialità e ora ho coronato il mio sogno di suonare in un gruppo). Nel frattempo tenevo un diario di tutti i miei tentativi, senza accorgermi che stavo utilizzando lo strumento giusto, quello per me più adatto. Anziché scrivere dei miei tentativi falliti nella ricerca di forme per esprimermi, arrivai – con colpevole ritardo – alla conclusione più ovvia: scrivi per raccontare, è quello il tuo strumento.

“Apri il tuo blog” diceva una scritta in evidenza in alto. Lo aprii, scrissi il mio primo post che si intitolava “un blog? Perché no?”.

Mi piaceva andare in onda, per così dire. Mettere on line significava esporlo. In un mare immenso, certo, ma intanto c’era. Non so bene cosa mi aspettassi, certo è che alcuni amici iniziarono a dirmi che ero bravo. Ero bravo nel raccontare il nulla, ma non in una accezione nichilista. Mi divertivo a spezzettare il tempo, gli attimi; fermarlo per descrivere un’espressione, un tono, e poi farlo ripartire (anni dopo lessi McCarthy e scoprii cosa voleva dire fare questa cosa davvero bene)

Ricordo per esempio che un giorno raccontai per filo e per segno il mio viaggio dall’altra parte della città per portare la macchina a fare il tagliando.

“Ti potrei dire – diceva un mio amico nonché mio accanito lettore – che nel post che hai scritto, cazzarola, non succede nulla. Però è bellissimo, me lo sono letto tutto”.

Raccontare il nulla. Una operazione difficile. Ma io non avevo alcuna ambizione. Me lo hanno detto gli altri che raccontavo spesso quello: vita quotidiana senza sussulti né stravolgimenti, solo i punti di vista davano movimento.

Scoprii dopo, poco dopo, che tutto sommato mi piaceva. Mi vennero in mente le parole de “Il suonatore Jones” di De Andrè: “ e ti piace lasciarti ascoltare”.

Ecco: mi godevo quella piacevole sensazione che non avevo assolutamente programmato.

C’erano chili e chili di Moleskine riempite, più o meno dai primi anni ’90. Scrivevo in modo quasi compulsivo. Mettevo sempre la data e anche l’ora, perché il momento della giornata influiva molto sul tenore dello scritto. Scrivevo molto soprattuto la mattina, dopo la colazione. Leggevo le notizie, iniziava la giornata e io avevo voglia di dire la mia. Non ho mai capito a chi scrivevo, certo era che quegli scritti – che ora, a rileggere, trovo spesso molto noiosi – non avevano alcuna finalità. Forse pensavo che un giorno li avrei ordinati tutti, messi insieme e ci avrei tirato fuori qualcosa di buono. Così non è stato, almeno per il momento.

Non avevo programmato nemmeno un’altra cosa, però.

Casa di amici, interno sera.

I fumatori, e io fra quelli, escono sul balcone. Tra una boccata e l’altra inizio a raccontare qualcosa. Qualcosa che mi è successo, un giro in moto particolarmente bello o magari solo un mio pensiero.

Il mio interlocutore diceva: “ah sì sì” e chiudeva il mio aneddoto, il mio pensiero.

Come faceva? Lo aveva letto. E lo aveva letto perché io lo avevo scritto. E se lo avevo scritto era perché qualcuno lo leggesse, no? Non faceva una piega, ma a volte mi dispiaceva.

Non conoscevo però tutti quelli che mi leggevano. Specialmente la politica, creava unione fra i vari blogger. Ricordo uno che si chiamava Ulz. Un giorno lessi un suo commento sul mio blog: “nerazzurro e pure compagno: il tuo blog finisce diretto fra i miei preferiti”.

Ulz scriveva qualcosa, io lo leggevo e lo commentavo e lo stesso faceva lui con me. Si frequentava gli stessi posti e un giorno ci conoscemmo. Mentre lui rideva, dicendomi che ascoltarmi era esattamente come leggere il mio blog, io, da parte mia, gli dissi che me lo immaginavo esattamente così.

Le relazioni si stabilivano anche per risolvere problemi tecnici. Tiscali forniva dei modelli di blog, ma poi, con l’html, potevi fare quel che volevi. Una ragazza, credo di Roma, che aveva un blog sfavillante, pieno di cose che il mio non aveva, mi spiegò come funzionava l’html. Creai un word con i vari codici per le varie opzioni e ogni tanto mi piaceva cambiare qualcosa di quei codici, per vedere se avevo capito il meccanismo.

Gli anni intanto passavano. Un giorno una ragazza che seguiva il mio blog scrisse fra i commenti: “ci sei su faccia libro?”

“cosa vuol dire?” le chiesi

“traduci e capirai”

C’era Facebook, sì. E stava prendendo piede. Alcuni miei amici mi dicevano che era più semplice lì, ed era iniziata la migrazione di vari blog verso quella esperienza. Alcuni sostenevano che sarebbe stata solo questione di tempo e che tutto sarebbe finito per girare lì.

Io resistevo. Non so bene perché, ma stavo bene dove ero. Facebook non mi convinceva, più a pelle che per ragioni circostanziate (che comunque non tardai a trovare).

L’autunno/inverno del 2011 me lo ricordo freddo e nebbioso. Mi ricordo un Forum di Assago avvolto da una nebbia gelida la sera del concerto di Paul McCartney. Ricordo che avevo un lavoro che non mi piaceva ma che pagava abbastanza bene. A casa ci stavo poco e quel poco che ci stavo leggevo, approfondivo, cercavo di capire sempre di più. Ero affascinato da quelle forme narrative ibride, oppure palesemente riconducibili alla narrativa da un punto di vista tecnico, ma con un valore politico aggiunto. Leggevo i libri del collettivo Wu Ming e ne ero rapito. Mi imbattei in Giap, il loro blog che per me fu una folgorazione. Rubavo e liberavo tempo da ogni dove per leggere quello che scrivevano. Seppi che erano attivi su Twitter.

Twitter era un oggetto abbastanza sconosciuto per me e forse, proprio per questo, mi informai. Mi parve più abbordabile di Facebook. Non era luogo da “buongiorno a tutti” e poi la foto del cappuccino. Era più luogo da “compagn*, oggi è successo questo nel tal posto e occorre reagire”.

Mi piaceva quel clima. Mi piaceva proprio.

É un bel rapporto quello fra compagni. È qualcosa di simile ma di diverso da amici. Amici è una cosa più interiore. Compagni è anche la proiezione pubblica e civile di un rapporto. Si può anche non essere amici ma si conviene di lavorare assieme.”

Twitter per me è stato questo: le parole di Rossana Rossanda hanno riassunto lo spirito con il quale decidevo chi seguire. Ho sempre ignorato la funzione “trova i tuoi amici su Twitter”. Non ero lì per quello.

Iniziai ad osservare, a leggere, a cercare di capire tutto quello che capitava intorno a Giap dei Wu Ming. Grazie a loro conobbi altre persone e altre storie. Trovavo un livello davvero elevato. Si metteva insieme pratica e teoria, riferimenti culturali, analisi politico sociologiche. Io a volte arrancavo, rileggevo alcuni passaggi per capirli bene. Rispolveravo alcuni testi studiati alla università, cercavo connessioni.

In una parola passai ad un livello più alto. Tutta la discussione su dove fossero finiti gli intellettuali, cosa facessero, perché non dicessero la loro, per me era chiusa. Se c’erano erano lì. A dire la loro, a commentare in modo lungo e circostanziato. Bastava mettersi a leggere.

Ho capito in fretta che l’unico uso di twitter che avesse un senso era questo: i tweet servivano solo per invitare a prendere altri percorsi, per poter accedere a siti e blog dove si poteva fare un discorso articolato (molto articolato). Si tornava ai blog, quindi e, ad uno sguardo superficiale, il cerchio si chiudeva. Non del tutto però. Tornare al mio blog dopo essere passato da quel fiorire di citazioni, ragionamenti, contributi, narrazioni de-tossicizzate, non poteva essere una cosa automatica. Non potevo non vedere la differenza. Avevo bisogno anche io di addentrarmi meglio in quel mondo. Se scrivevo di politica – cosa che mi è sempre piaciuta – non potevo ignorare quello che avevo appreso nel frattempo. Il mio giudizio verso me stesso si era fatto più duro. Usare belle immagini e qualche metafora per dire da che parte stavo, non mi bastava più. Improvvisamente mi parve un esercizio inutile. Era una affermazione del sé politico che cercava suoi simili e il dubbio che dietro tutto questo ci fosse una dinamica consolatoria, non mi ha mai abbandonato. Il sé politico si doveva affermare, certo, ma doveva avere senso solo se parte di una elaborazione comune. Così come avevo imparato io, anche il mio contributo, forsemagarichissà, avrebbe potuto aiutare qualcuno.

Con queste aspirazioni la frequenza dei miei scritti diminuì. Mi trovai in una condizione di ascolto. Confrontavo il mio livello di approfondimento con quello delle persone che leggevo e mi pareva che il lavoro da fare fosse molto. Non mi scoraggiai, ma non nego che, allo stesso tempo, trovai estremamente comoda e accogliente la posizione del lettore, sul web. Imparavo, giudicavo, mi intrattenevo, sceglievo, ma non partecipavo.

Vengo da una famiglia di gente “studiata”. Mio padre era docente universitario, sociologo. La mia casa era piena di libri. Sicuramente non è stato facile per me approcciarmi a quel mondo. Ebbi un rifiuto, poco meno che adolescente. Non volevo leggere perché in casa si leggeva molto. Giocavo a calcio e pensavo alla ragazzine. Tutto lì. Tronfio del mio andare contro corrente, del mio essere terra terra. Le cose erano semplici, non complesse come le insegnava papà. Papà che nel frattempo osservava tutto questo con pazienza, convinto che fosse una fase. E così fu. Come mi si aprì un po’ di mondo con il liceo, i libri arrivarono. Mi servivano per contestare, perché qualcuno aveva già detto quelle cose, prima di me, molto meglio di me.

Ero affascinato ed inibito. Volevo scrivere anche io cose di quel livello. Volevo contribuire, fare il mio. Mi prese quella stessa ansia che mi prendeva alle assemblee al liceo: volevo prendere la parola ma non mi sentivo all’altezza.

Un giorno la parola la presi. Avevo appena finito “Un viaggio che non promettiamo breve” di Wu Ming 1. Su twitter era tutto un fiorire di idee, analisi, esegesi di quel libro.

Aprii un word e mi misi a scrivere. Il pezzo mi uscì quasi di getto. Lo postai sul blog, scrissi un tweet con l’hastag e il link. Avevo buttato il mio sasso. Già mi pareva un successo averlo fatto.

Dopo qualche ora trovai una notifica sul cellulare: il mio tweet era stato rilanciato dall’autore. Poco dopo mi arrivo una sua risposta: mi ringraziava. Nel giro di una settimana un post di Giap linkava, fra le varie recensioni al libro, il mio blog.

Capii che la deferenza era un concetto sbagliato. Era un blocco. Un atteggiamento che nn favoriva la fluidità, con un qualcosa di vagamente reazionario.

Questa è la mia storia.

Mi sono domandato quanto abbia di universale, quante persone potrebbero dire “anche per me è stato così”. Poche, penso. Ma non credo che sia questo il punto.

Il punto – sicuramente uno fra i tanti – è smontare pezzo a pezzo tutta la narrazione che fa della “rete” una entità a sé stante. “La rete dice che…” è una sorta di moderno animismo.

La rete è fatta da tutti quelli che che vi accedono. Se è violenta, ingiusta, discriminatoria, è perché chi la usa è così.

Se costruisce reti di solidarietà, di approfondimento, di mobilitazione è perché non tutti quelli che la usano sono così.

Se la mia esperienza mi ha insegnato qualcosa è che non bisogna mai mollare.

Dentro o fuori la “rete” che sia.

Autore: scartafaccio

"produrre il necessario distribuire tutto"

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