di marzo

Un pomeriggio di marzo. Canticchio “la pioggia di Marzo” di Fossati. Intanto un po’ di sole cerca di asciugare l’umido dei prati di parco Sempione. Per il momento non ce la fa.

Guardo il cielo di un blu tendente al freddo. Mi perdo un po’ a guardare la lotta fra caldo e freddo di questa stagione. Si sa già chi vincerà, ma non si sa in quanti round.

Vedo una rondine, forse mi sbaglio. Naso all’insù, proprio come quell’agente della scorta di Aldo Moro mentre aspettava il presidente Dc fuori dalla chiesa dove andava sempre a pregare la mattina. Quarantacinque anni fa, proprio in questi giorni.

“una rondine! – disse –  Sta per arrivare la primavera”.

Quell’agente quella primavera non la vide. Ancora qualche giorno e sarebbe stato ammazzato in via Fani, da un commando delle Brigate Rosse intente a rapire Aldo Moro.

Quella mattina, fuori dalla chiesa, c’erano anche dei brigatisti. Stavano osservando le mosse dell’onorevole, per capire dove fosse un punto debole della sua routine giornaliera per poterlo rapire. Furono loro a sentire questa frase, che l’agente rivolgeva ad un suo collega.

“Io ormai vado tutte le mattine fuori dal Carducci”

Anche se non lo frequenta più, veleggiando verso l’università, Elle, 20 anni, si sente in dovere di andarci. Il Carducci è quel liceo di Milano teatro di una recente polemica. Alcuni studenti hanno appeso uno striscione con le immagini del primo ministro Meloni e del ministro della istruzione (e del merito!) Valditara a testa in giù. Il testo: “ma quale merito, la vostra è solo violenza”.

Liceo Carducci, Milano

“Che poi quello striscione lo hanno messo quei 4 gatti degli anarchici. Stanno tirando su un casino per niente, fra giornali e politici”. Chi parla è Effe, che al Carducci ci studia. Effe è un compagno ma si interroga sulla effettiva utilità di una protesta del genere.

L’atmosfera è calda dopo l’aggressione fascista agli studenti del collettivo di un liceo di Firenze. La città ha risposto con un lungo corteo antifascista, aperto da due o tre file di compagni in cordone, le mani sulle aste delle bandiere tenute in orizzontale.

Le Br sulle prime pensavano che la chiesa fosse il luogo ideale per rapire il presidente, perché entrava in chiesa da solo, la scorta aspettava fuori e l’edificio aveva una uscita laterale. Poi però, osservando la piazza, c’erano troppe variabili. Una su tutte il cortile di una scuola adiacente alla chiesa. In caso di conflitto a fuoco il rischio sarebbe stato troppo alto.

Si optò quindi per via Fani, all’angolo con via Stresa, a Roma.

“Sai – continua Elle – ormai si sa che quelli di Lealtà e Azione agli studenti del Carducci gliela hanno giurata. Abbiamo avuto queste informazioni da una serie di contatti, la cosa pare certa. Stanno solo aspettando la mattina giusta. Noi intanto andiamo a fare i picchetti la mattina. Questa attesa però ci sta snervando”.

Continuo a guardare il cielo mentre Elle parla. Sì forse la primavera sta arrivando. Forse sto guardando il cielo con gli stessi occhi di quell’agente ammazzato in via Fani.

Penso che vorrei esserci anche io, fuori dal Carducci, e vorrei portare con me i compagni più cazzuti che ho conosciuto in tutti questi anni. Gente vicina ai 50, sguardo fresco e mani salde.

Saluto Elle. Vorrei proteggere i suoi 20 anni, ma non sarebbero i suoi 20 anni se non ci fosse la tensione alla prima linea. Vuole cospirare, non essere protetto.

via Fani, Roma, 16 marzo 1978

In via Fani, a Roma, il 16 marzo di 45 anni fa, l’operazione riuscì. Moro venne rapito, la scorta “annientata”, che nel linguaggio Br vuole dire tutti ammazzati.

Si sferrò l’attacco al cuore dello Stato. I giorni della prigionia di Moro però non portarono i risultati sperati, nemmeno quelli minimi, lo scambio uno a uno con detenuti politici. L’aspetto più paradossale di tutta la vicenda Moro fu che lo Stato, rappresentato di fatto dalla Dc e dal suo Presidente, descritto come cinico, sanguinario, ferocemente autoritario, si dimostrò ancora peggio di così. Quello che accadde dimostrò che – paradossalmente, appunto – le tinte fosche con cui veniva dipinto il Potere e i suoi rappresentanti, erano ancora più fosche di quanto i Br si potessero immaginare. Di fronte al ricatto Br sacrificarono senza problemi uno degli uomini più rappresentativi, pur di continuare a mantenere intatto lo status quo.

Fecero un po’ come Keyser Soze ne “i soliti sospetti” che, rientrando a casa e trovando i suoi nemici che minacciavano sua moglie e sua figlia, uccise entrambe, così i suoi nemici non avevano più niente in mano.

“Quasi certamente Keyser Söze non è il diavolo, ma è comunque quanto di più prossimo a lui si possa trovare in terra” – I soliti sospetti 1995 regia di Bryan Singer

Anche io voglio cospirare. Insieme ad Elle, ad Effe e a tutti i ragazzi come loro. Non ho niente da insegnargli, semmai ho da imparare. Posso solo metterli al corrente di quanto già successo, di quanto già visto così che possano avere quante più informazioni possibile. Per il resto so che faranno benissimo.

Mi chiudo la giacca e risalgo in moto. Inizia ad imbrunire.

Salgo in moto.

Sì forse la primavera sta arrivando, ma l’aria fredda che entra nel casco mi dà qualche brivido.

Del resto si sa: “di marzo si fa sera ancora presto

gruppi

Era una sera abbastanza fredda. Appuntamento alle 19 e 30 all’angolo qui sotto. Ho mangiato al volo, gnocchi. Poi ho salutato la famiglia e sono sceso in strada. Chitarra nella custodia e borsa con fogli, cavi, pedali, accordatore. Attendo che mi passi a prendere D. Ci siamo conosciuti che era primavera inoltrata. Mentre i nostri figli giocavano e si inseguivano, noi ci siamo messi a chiacchierare. Accento romano, sorriso gentile, anche lui suona la chitarra. Ci siamo messi a parlare dei nostri rispettivi gruppi, di come funzionano, che musica facciamo, che chitarre suoniamo. Loro fanno roba forte, che fa rumore, che serve il distorto, il fuzz e chissà quali altre diavolerie da rockettari. Io, con il mio gruppo, suono quasi sempre pulito, tranne un lead nei soli, che però mi fornisce il Marshall a cui mi attacco in sala prove.

Comunque chiacchieriamo bene, ci fa piacere trovarci ed ammazzare il tempo mentre intorno a noi infanti urlanti si inseguono e ridono.

Passa l’estate. A settembre ci si ritrova. Giusto qualche saluto veloce fuori dalla scuola, un sorriso, un “oh, ci dobbiamo beccare con le chitarre eh?!”.

Intanto continuo con il mio gruppo. Viene fuori una possibilità di suonare in pubblico. Il cantante però non vuole. Non lo dice espressamente, dimostra anzi entusiasmo all’inizio. Poi, come già successo in passato, quando si tratta di occuparsene veramente, trova una scusa, un cavillo e manda tutto in vacca. Questa volta non lascio correre. Mi sento preso in giro. Così mi do’ alla macchia. E anche lui deve aver capito che così non si fa, perché non mi cerca. Passa l’autunno. Non si suona. Non ci si sente nemmeno, la chat tace. Vedo giusto il batterista, ma perché siamo amici e abbiamo dei figli più o meno della stessa età. Io ne approfitto per fare pratica, studiare scale nuove, suonare suonare, come dice la PFM. In questi mesi stresso spesso il mio amico Peppo, chitarrista professionista. Gli chiedo quando è libero, gli sottopongo i miei dubbi, le mie incertezze. Lui risponde, spiega, suona con me. Il gruppo non mi manca e poi sono ancora troppo incazzato per come sono andate le cose. Dall’autunno inoltrato fino a natale conosco solo la mia chitarra, le basi su cui suonare, studio nuovi trucchi, cerco di migliorare.

Ultimi giorni prima delle vacanze invernali. Sono le 4 e mezzo, interno della scuola. Fuori è buio. Incontro D. Non lo vedo da un pezzo, più o meno da quando ha iniziato a fare troppo freddo e buio per i pomeriggi al parco. Mentre i nostri figli, con i loro tempi, si mettono giacche, sciarpe, cappelli e guanti, lui mi dice:

“ah senti, ti andrebbe di provare con noi?”

“ah…beh…sì dai…anche se veramente….”

“Vai tranquillo. Sono canzoni facili. In realtà cerchiamo un bassista, però il cantante potrebbe passare al basso. Insomma, vediamo un po’ come fare”.

Accetto. Ci lasciamo con un “ne riparliamo dopo le vacanze”.

Arrivano le vacanze. Partiamo per la toscana. La macchina è piena e una chitarra non ci sta. Ci sta però l’ukulele, che mi porto via.

Così, mentre sono nella enorme sala della casa presa in affitto e sto cazzeggiando con il mac, su whatsup arriva un messaggio di D. Anzi: più messaggi. Ha mandato un file zippato con dei files audio, più un word. Sono le tracce del suo gruppo e gli accordi.

Scarico, apro lo zip e mentre il mac lavora, apro il file word con gli accordi. Sembrano semplici, niente none, quinte o cose varie. Niente accordi composti con slash o bassi strani da fare.

Ascolto. C’è un sacco di distorsione, il suono è potente e deciso, i testi, perlopiù in italiano, raccontano di una ricerca di un modo di essere e sono pure anti sistema, anti guerra.

Quando D. mi disse “è tipo Litfiba prima maniera” devo dire che ci aveva abbastanza preso.

Provo con l’ukulele, ma non è proprio lo strumento adatto. Aspetto di essere tornato a casa e di provarle con la chitarra, anche perché pare che la prima prova sarà a metà gennaio e di tempo ne ho.

Finiscono le vacanze, dal mio solito gruppo nessuna news. Io uso ogni momento libero per provare questi nuovi pezzi. Alcuni scorrono via veloci. Altri sono da capire meglio. Intanto D. tace. Pazienza – penso – ho comunque fatto altra pratica. Poi, un giorno gelato, mi scrive. Ci si vede un lunedì sera in una sala prove qui vicino. Mi passa a prendere lui.

Era una sera abbastanza fredda. Appuntamento all’angolo qui sotto. Gli gnocchi ancora non li ho digeriti, avendoli trangugiati in fretta. Aspetto il passaggio. D. arriva. Carico la mia chitarra in macchina e andiamo. Ho la sensazione di fare una cosa diversa dal solito, che molto probabilmente non rifarò più. Come andare a vedere un film che non è il tuo genere.

Entro in sala. Mi presento al cantante (è un po’ diverso da come l’ho visto nei video caricati sul tubo) e al batterista. Proviamo. Iniziamo. Io cerco tutto il distorto che ho. Mi sono portato la Black Beauty per fare casino. Sbaglio qualcosina, ma i pezzi li conosco. Li ho sentiti e provati parecchio, di fronte al mio mac.

Il clima è rilassato, gli altri del gruppo sono simpatici. Io faccio il mio dignitosamente. Mi diverto ma mi sento abbastanza fuori posto, sebbene questo non mi crei alcun disagio. Finiscono le prove. Usciamo. Si chiacchiera e poi con D. torniamo a casa.

“bello, mi sono divertito – gli dico – ma onestamente non credo che abbiate bisogno di un chitarrista tipo me”

D. non abbandona il suo sorriso sereno, non conferma né smentisce

“Come è andata ieri sera alla fine?” mi chiede la mia compagna il giorno dopo.

Le dico “bene”, è stata una bella esperienza. Divertente. Ma non penso che si ripeterà.

Torno ai miei esercizi, a suonare sulle tracce delle canzoni che più mi piacciono.

Passa qualche giorno. Mi arriva un messaggio da D. “ci farebbe piacere continuare insieme”.

Resto un po’ stupito, non me lo aspettavo. Ma in fondo mi fa piacere.

Eccomi qui. Inquadrato come chitarrista in un gruppo nel quale non avrei mai pensato di suonare. Però, sentendo le registrazioni delle nostre prove, c’è un tiro notevole. Il batterista non perde un colpo, va sicuro e rende tutto molto forte e credibile. Il cantante (e bassista per l’occasione) sa quello che vuole, sa come dobbiamo suonare e ce lo dice in modo fermo e gentile.

Mi sento bene, ci sono buone vibrazioni. È il fascino di unirsi intorno ad una cosa, ad un codice. La conoscenza personale viene dopo, prima c’è il creare insieme qualcosa. È un percorso affascinante, apparentemente inverso al solito: prima costruisci, poi, man mano, conosci le persone con cui hai costruito.

Grazie papà per avermi regalato una chitarra, quando avevo 8 anni. Mi spiace solo che non hai potuto vedere quanto questo regalo mi abbia dato nel tempo.

….ma a volte, quando sono preso particolarmente bene, ti immagino lì seduto vicino a me, con la tua aria vagamente ironica e soddisfatta, la sigaretta in mano e un sorriso tutto per me.

Analisi di un libro e di una storia in 30 anni

Rileggo un libro. Non lo avevo mai fatto prima, forse sto invecchiando. A dire il vero non è proprio una rilettura. Quel libro lo avevo iniziato, ma non finito. Ero un ragazzino quando presi in mano “Vita di Enrico Berlinguer”, di Giuseppe Fiori. Lo aveva letto mio padre, poi mia madre e alla fine io.

Libro estivo. Ho due ricordi legati alla prima lettura – incompleta – di quelle pagine. Nel primo siamo io e mia sorella seduti su un terrapieno a bordo strada. Maremma, sole, ulivi a fare un po’ di ombra sennò un caldo cane. Stavamo aspettando che nostro padre risolvesse un problema della macchina, la nostra Fiat 131 familiare, insieme al meccanico, lì, poco distante.

Faceva caldo. La strada provinciale lunga, dritta e assolata.

Quando Berlinguer si iscrisse al Pci era estate, Sardegna. Un suo amico lo accompagnò alla sezione locale ma non ebbe, dal futuro segretario, il permesso di entrare. Lo aspettò fuori, tra ulivi, caldo, cicale, sul ciglio di una strada assolata.

Il secondo ricordo è lo scompartimento di un treno che andava da Livorno a Milano. Ero stato qualche giorno al mare da mia nonna e tornai in treno a Milano. Durante il viaggio lessi buona parte di quel libro, suscitando la curiosità dei ragazzi, più grandi di me, con cui condividevo lo scompartimento.

Poi il libro lo mollai: troppe descrizioni di correnti, intrighi, maneggi e intrallazzi della politica italiana di quegli anni. Non che non mi interessassero, ma Fiori, nelle sue biografie, spesso lascia da parte il soggetto di cui sta raccontando la storia e ti parla, diffusamente, del contesto: personaggi che gravitano attorno al leader, o anche figure secondarie, che concorrono a creare il contesto. A me interessava più che altro lui, Berlinguer, che godeva della stima di mio padre e quindi, di riflesso, anche della mia. Forse, data la mia giovane età, avrei preferito leggere cose sulla sua vita, su sua moglie, i suoi figli. Fiori però non faceva gossip, né declinava la descrizione a meri tratti di personalità, usando fatti e fatterelli personali per delinearne la figura. Fiori preferisce sempre andare al contesto, perché senza quello la natura delle sue biografie non avrebbe senso di esistere.

Ho ripreso quel libro, venuto fuori da qualche scatolone del trasloco. E, ora, l’ho quasi finito. Ho riletto alcune mie sottolineature, che riguardavano quasi esclusivamente la personalità del leader comunista. La pacatezza, la risolutezza, una immagine pubblica austera e anche triste, secondo alcuni, quando invece, l’uomo Berlinguer, era allegro, solare, molto scherzoso. Solo che non vedeva motivo di essere così anche nella sua immagine pubblica. Praticamente un altro mondo, pensando ai politici di oggi.

Ebbi la consapevolezza, indistinta ma abbastanza chiara allo stesso tempo, di quando superai il punto in cui mi ero arenato da ragazzo. Poco prima del compromesso storico e di come andò a finire.

Sono andato oltre. Stavolta ho trovato interessante la descrizione delle trame politiche di quel periodo, delle correnti presenti nel Pci ma anche nella Dc. Però oggi la penso diversamente.

Arriva il 77 e a Fiori non è piaciuto. Quella marea caotica, frenetica e indistinta faceva casino per le strade, usava l’ironia, lo sfottò. Era composta da varie anime che in pochi si sono presi la briga di studiare. La delicatezza della situazione in cui si trovava il Pci – lavorava al compromesso storico: difficile equilibrio fra una storia e una impostazione rivoluzionaria e leninisita e un posto in una democrazia occidentale sotto l’egida della Nato – dava l’impressione che funzionari e militanti ne fossero infastiditi. Come uno che sta facendo un castello di carte e l’altro gli apre la finestra per fare corrente. Indispettito. Il fatto è che spesso le prime manifestazioni di un nuovo sentire, di esigenze e richieste nuove che vengono dalla società, non sono belle da vedere, come disse Tonino Loris Paroli (ex Br e testa pensante). Bisogna saperle guardare con occhi giusti, capire cosa c’è lì in mezzo di buono, quali “nuclei di verità” vi sono all’interno, quali questioni sollevano (al di là del “come”). Un po’ come le piazze No Green Pass di Trieste: molti compagni che si sono trovati lì han dovuto fare un faticoso lavoro di ricerca per trovare le cause giuste, le persone giuste in mezzo a crocifissi sventolati contro Satana, attori in declino in cerca di un ultimo respiro di notorietà, discorsi farneticanti di alieni e mangiatori di carne umana, preferibilmente di infanti.

Una fatica. Che però va fatta.

Il 77 poneva temi con i quali ci saremmo confrontati pochi anni dopo: la società dei consumi, l’affermarsi dei consumi indotti, il possedere un oggetto come garanzia di inclusione sociale, l’uscire da una rivendicazione di soddisfacimento dei soli bisogni base per chiedere abbondanza, riposo, relax. Piegare le nuove tecnologie di produzione per il benessere di tutti. Gli slogan secondo me più riusciti: “Vogliamo anche le rose” (e non solo il pane) e “Godimento Operaio”. Lavorare meno, incrementare il consumi culturali – liberi e gratuiti – e liberare l’essere umano dalla sua alienazione. Il vello soffocante dell’edonismo craxiano attutì, poco dopo, quelle questioni, lasciando ai più sensibili un malessere sostanzialmente personale.

Indiani metropolitani – Bologna – inizio 1977

Il Pci stava facendo la sua partita, mossa – non ho motivi fondati per credere il contrario – da una sincera intenzione di miglioramento delle condizioni di lavoratori e lavoratrici sfruttate. Aveva un margine di manovra ristretto, fra trame golpiste di destra e una base con velleità rivoluzionarie di stampo marxista.

Dimenticò però per strada alcune cose. Sostanzialmente la base e non parlo di militanti ed iscritti. Parlo degli ultimi, degli sfruttati, dei reietti, di tutti quelli a cui un partito comunista deve dare una prospettiva, una risposta.

Illuminante in questo senso – seppur scritta ben 16 anni prima, ma questo si chiede agli intellettuali: di capire cosa sta per arrivare e di andare oltre – la poesia di Pasolini “Alla bandiera rossa”, che si conclude così:

tu che già vanti tante glorie borghesi e operaie,
ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli

Arriva il sequestro Moro, un anno dopo, e qui Fiori a mio avviso si perde: la sindrome da accerchiamento, la sensazione (assolutamente fondata) di grandi poteri avversi al disegno politico del Pci, butta nel calderone anche le Br, che sicuramente erano avverse al Pci, ma soprattutto al “sistema” in generale. Le Br non facevano distinzioni in questo senso. Andavano per la loro strada, ma, visto il contesto, la tentazione di disegnarle come organiche al processo di accerchiamento del Pci e quindi di concerto con i poteri forti, mi pare storicamente scorretto.

Che, una volta sequestrato Moro, la sua uccisione facesse comodo a molti, è un fatto. Quale miglior modo per evitare l’ingresso del Pci al governo che eliminarne uno dei suoi artefici? Però che le Br avessero altri piani secondo me lo dimostra il fatto che fecero di tutto per non uccidere l’ostaggio. Chiesero la liberazione di 13 prigionieri politici in cambio della vita dello statista Dc. Non se ne fece nulla. Chiesero lo scambio “uno per uno” e per un po’ ci fu l’ipotesi di liberare una compagna malata che si trovava dietro le sbarre. Non venne accettato nemmeno questo. Alla fine le Br erano interessate solo al riconoscimento politico: riconoscere cioè una soggettività politica e non solo una questione giudiziaria e di ordine pubblico.

Fiori cita alcuni contatti fra persone contigue al mondo brigatista e alcuni esponenti del Psi, ma la fa troppo facile. Il Psi e le Br sicuramente avevano nel loro mirino il Pci. Per motivi diversi però. Il Psi puntava, tramite un abile e spregiudicato gioco politico, all’isolamento del Pci, così da poter diventare – e restare – l’unico referente a sinistra del più grande partito italiano, la Dc. Le Br colpivano – e colpivano duro – per sovvertire lo stato di cose presenti. La loro idea era di scatenare contraddizioni e conflitti atti a fare esplodere la rivoluzione. Erano una avanguardia, anche se con il tempo hanno smesso di domandarsi quanta gente ci fosse effettivamente dietro di loro (e all’inizio della loro storia ne avevano parecchia).

Trovo sbagliato accomunare questi due soggetti e pensare che agissero di concerto.

I contatti fra Psi e persone attigue alle Br ci furono, è vero. Ma ci furono, e questo Fiori lo dice, perché il Psi voleva rompere il fronte della fermezza (nessuna trattativa con le Br) di cui la Dc e il Pci erano gli esponenti più radicali. Il Psi cercava uno spazio politico e durante i giorni del sequestro Moro, si spese per la trattativa. Non la definirei una posizione prettamente umanitaria, piuttosto utilitaristica, per quanto mossa da un fine nobile, cioè salvare Moro.

Molti compagni dell’area della Autonomia avevano contatti con altri compagni in clandestinità, brigatisti o appartenenti ad altre formazioni rivoluzionarie e per questo capaci di fare arrivare ai carcerieri di Moro proposte, idee, compromessi per scongiurare il peggio.

Ci furono dei contatti che però, come sappiamo, non risolsero la questione.

Credo che Fiori – persona dotata di una notevole capacità di analisi, di cultura profonda e di una scrittura complessa ed efficace allo stesso tempo – cada nella trappola del complottismo, non ho idea quanto consapevolmente.

È molto difficile ammettere che in Italia, per più di 10 anni, ci sia stato un movimento clandestino capace di colpire i simboli del potere e ritirarsi ordinatamente dopo ogni azione. Al di là di come la si pensi, riconoscere una soggettività politica alle Br vuole dire riconoscere una conflittualità ed una radicalità di alcune istanze, che la politica istituzionale voleva rimuovere a tutti i costi, Pci compreso. Allora serve l’eterodirezione, serve trovare una mano misteriosa che ha armato quelle mani (mano peraltro mai venuta fuori in modo preciso dopo centinaia di processi), altrimenti bisogna ammettere che in Italia c’era chi davvero voleva fare la Rivoluzione, quella vera, quella radicale. Non “un pranzo di gala” ma “un atto di violenza”, come disse Mao.

Tutto questo stona con una immagine di paese sì iniquo a tratti, ma sostanzialmente pacificato. Allo stesso tempo mette in discussione tutti quei canali di partecipazione – pure numerosi in quegli anni – per migliorare le proprie condizioni di vita collettivamente. Ne mostra la inefficienza o, quantomeno, la loro non esaustività. Per quanto elevato potesse essere il livello di discussione presente nelle varie sezioni e strutture di partito, nonché sindacali, a molti tutto questo non bastava.

Raccontare questo vuole dire ammettere l’esistenza di una storia che deve essere cancellata. Da qui la prospettiva dell’ordine pubblico, del “non si può uscire tranquilli la sera”. Cose vere, leggendo le cronache di quegli anni, il clima era pesante. Però questa non è una prospettiva politica. Pare quasi che, nel momento in cui la conflittualità sociale e politica arrivi alle sue estreme ma prevedibili conseguenze, sia necessario tornare al personale, parlare della donna con figli che la sera deve stare chiusa in casa. Tutto vero, ma la prospettiva politica è altra cosa. È una cosa che spesso ti fa mettere le mani nella merda ed è chiaro che l’operazione non sia invitante. Ma è necessaria, se si vogliono capire i fenomeni a fondo e dalla angolatura giusta.

Fiori si abbandona a questo. Elenca gli atti di terrorismo uno dietro l’altro, fra uccisioni e ferimenti. Ma, per dirla con i Wu Ming, bisogna “saperci fare con il sintomo” e non scambiare il sintomo con la malattia.

Vale la pena ricordare che, se parliamo dei primi anni 70, quando iniziò a manifestarsi il fenomeno del terrorismo di sinistra, il paese aveva visto carabinieri che sparavano su braccianti che chiedevano terra e pane, aveva visto cadere, poco più di 10 anni prima, uccisi dal piombo della polizia, quelli che manifestavano contro l’ingresso al governo del Msi. C’erano vessazioni di ogni tipo sul lavoro, c’era un patriarcato che non voleva assolutamente cedere posizioni e una legislatura che agiva di concerto (le disposizioni sul delitto d’onore sono state abrogate definitivamente nel 1981).

7 luglio 1960 – 5 morti a Reggio Emilia

Era questo il contesto. Ignorarlo o citare la scarsa pazienza di alcuni compagni incapaci di aspettare i frutti di un lento lavoro di conquiste parziali e compromessi, mi pare che mischi il piano della valutazione politica soggettiva, con la situazione generale. Si fa riferimento ai problemi personali dei vari protagonisti: uno che prende la pistola in mano deve avere delle turbe o una infanzia infelice. Si torna sempre al soggettivo quando una radicalità viene espressa in modo considerato non ortodosso.

Fa caldo anche oggi, come in quel pomeriggio maremmano in cui io e mia sorella aspettavamo che nostro padre risolvesse i problemi della 131 insieme al meccanico.

Non ci sono però ulivi a fare ombra.

Vorrei essere al mare.

Vorrei togliermi di dosso questa sensazione da occasione persa.

strane storie

Strane storie

Una strada che scorre, un vago senso di colpa, un po’ di freddo alle gambe e alle mani. Al busto no: mi sono fermato lungo l’autostrada a mettere una felpa aggiuntiva sotto la giacca. Forse è questo versante del lago che è in ombra. Dall’altra parte dovrebbe essere più caldo.

Non ti concentrare sul freddo. Hai letto vari libri sulle corse ciclistiche, gli eroi del Giro d’Italia e del Tour de France, sai che la mente può aiutare, può andare altrove e il corpo dopo un po’ la segue. E non si pensa più al freddo, o al caldo, o ad un braccio con il muscolo stirato, come mi è successo facendo un movimento strano per prendere il bancomat e pagare l’autostrada.

Charlie Gaul 1956 – diventò “Angelo della montagna” conquistando il Monte Bondone

Cosa vuole dire pensare? Riflettere? Non lo so bene, non è una attività che inizia quando lo dici tu. È più una attività che mi sorprende, che mi coglie impreparato. Mi ritrovo a pensare, ma mi riesce difficile dare appuntamenti al pensiero. Però il casco, la moto che corre, il verde che sta venendo fuori, ho pensato che fossero un ottimo contesto per fare andare i pensieri.

Era dalla sera prima che ci pensavo. Domani poco da fare: prendo la moto. E vediamo dove andiamo a parare.

Questo ho pensato prima di chiudere il nuovo libro di Orwell e successivamente anche gli occhi.

Orwell negli anni ’30 (del ‘900) va a nel nord dell’Inghilterra, a vedere come vivono gli operai, i minatori e tutte quelle persone che stanno alla base della produzione, quelle senza le quali non ci sarebbe produzione, ma pur sempre invisibili, senza nessuna garanzia se non la mera sopravvivenza e a volte nemmeno quella. Le sempre grandi Edizioni Alegre hanno pubblicato questo scritto, fino ad ora quasi introvabile in Italia. Uno dei problemi principali è l’approccio a quelle classi sociali. L’approccio da borghesi, da gente che non ha di quei problemi, è rischioso: il rischio più grande è che si trasformi in un tour folcloristico, una specie di gita allo zoo a vedere come vivono gli invisibili. Bisogna prendere le misure. Entrare dentro alle storie consapevoli delle differenze, ma senza calare nulla dall’alto. Un equilibrio difficile.

Più vai veloce e più la moto sta in equilibrio. Lo imparai decenni fa andando in bici. Mi accorgevo che più andavo a passo d’uomo e più la bici era instabile. Mentre quando mi lanciavo giù dalle discese maremmane il manubrio stava immobile e non c’era bisogno di sforzi per l’equilibrio.

La mia moto non fa eccezione. Quando è quasi ferma il rischio di cadere è notevole (le mie uniche cadute sono avvenute da fermo), ma appena si prende velocità ecco che tutto si stabilizza.

Autostrada per circa 40 minuti. Poi statale lungo il lago a spingere solo nelle curve con buona visibilità, cioè pochissime.

Avevo bisogno di questo. Però i pensieri non è che siano arrivati subito. Avevo sprazzi di ricordi, espressioni, l’odore di una cucina, di un piatto di benvenuto, un sorriso e la solita parte di te che non si capacità dell’assenza. Non ci crede, vuole mischiare sonno e veglia, vuole pensare che l’incubo sia quello di quando siamo svegli e non viceversa.

Perché quella persona non c’è più. Se ne è andata qualche giorno fa, prima del tempo, prima di esserci detti tutto, come sempre succede. Ha lasciato la vertigine del vuoto, l’incertezza dei giorni senza di lei che verranno.

Vedo turisti, vedo macchine straniere, sento il bicilindrico girare bene, a posto. A volte passeggio con un filo di gas, altre volte invece spingo, come a sincerarmi che il motore non si sia addormentato. Lui non è come me: si sveglia in fretta e risponde subito. Su un tratto di rettilineo spingo, ma subito dopo c’è una curva cieca. Poco prima di imboccarla stringo i freni e la moto si appoggia sull’anteriore, composta, corretta. Ricordo che un mio amico mi disse di cercare di entrare in curva neutro: né in accelerata né in frenata, diritto, perpendicolare all’asfalto. Una volta vista la curvatura piegare, puntare con gli occhi il punto in cui vuoi uscire e a quel punto dare gas.

Facile no?

No, per niente. Neutro cosa vuole dire? La motocicletta avanza, ha la sua inerzia. Non so esattamente cosa voglia dire neutro. Come si è quando si è neutri? La neutralità non mi è mai appartenuta molto. Sono sempre stato dentro alle cose, ai fatti, ai problemi e soprattutto alle relazioni. Ho avuto tanto, ma quando perdi qualcuno perdi un capitale. Mi sono interrogato su questa cosa, mi sono chiesto se spegnere i sentimenti potesse avere un tornaconto. A volte avrei voluto, ma solo quando ho avuto la sensazione della perdita ed è un pensiero che con gli anni ho accantonato. Ne vale la pena.

Penso a quanto mi manca la nostra amica, penso al tempo passato con lei. Se mi fermo sul dolore che provo allora sì, forse mi viene in mente che era meglio non avere ricevuto tutto quell’amore, ora che mi manca, che non c’è più. Ma è come quando ti fai male: al momento vorresti solo far passare il dolore, ma ci vuole tempo e resterà una bellissima cicatrice. Potrò dire: io l’ho conosciuta, le ho voluto bene e lei ne ha voluto a me.

Arrivo all’estremità del lago. Mi fermo, mangio una banana, fumo una sigaretta. Guardo quattro ragazzi che passeggiano, doppia coppia di stranieri. Nord europa direi. Guardano la mia moto, io tiro una boccata di tabacco e sorrido. Loro ricambiano.

Hai visto amica mia? Qui non è come da te. Non è quello splendido paesaggio di sole, terra e orizzonti ampi. Non ci sono gli spazi aperti e lo sciabordio che senti non è il mare ma il lago. Non è come nella tua splendida terra, qui è un po’ diverso.

Risalgo in moto, ora uso il navigatore e imposto l’opzione “casa”. Mi dice che manca un’ora e 40. Ottimo: dovrei riuscire ad arrivare a casa in tempo per tutto. Affronto le curve per uscire dal paesino lacustre, raggiungo la statale lungo l’altro lato del lago. È stretta ma molto bella. Da un lato la roccia verticale, dall’altra, davvero a pochi metri, la riva del lago. Si vede molto poco, dietro ogni curva una incognita. Guido un po’ “strappando”: accelero secco su rettilinei e freno molto prima delle curve.

Penso a quello che ho perso, accelero più del dovuto e quando devo frenare mi trovo a “pinzare” di brutto, anche il posteriore contribuisce, tanto che blocca la ruota, la moto si intraversa un po’ e poi torna diritta. Non veniva nessuno dall’altra parte, ma questo lo si scopre sempre dopo.

Sono arrivato a casa per tempo. L’ultimo pezzo è stata la odiosa tangenziale perennemente ristretta dai lavori, dalle linee gialle per terra.

La prima volta che ti ho conosciuta abbiamo fatto questa strada. Ti siam venuti a prendere all’aeroporto.

“Buongiorno signora, sono Tommaso”

“Niente signora” e mi dicesti il tuo nome.

Come facciamo ora?

Non lo so. Mi manchi.

infinito

Veda, Casaubon, anche il Pendolo è un falso profeta. Lei lo guarda, pensa che sia l’unico punto fermo nel cosmo, ma se lo stacca dalla volta del Conservatoire e va ad appenderlo in un bordello funziona lo stesso. Ci sono altri pendoli, uno è a New York, al palazzo dell’ONU, un altro a San Francisco, al museo della scienza, e chissà quanti ancora. Il Pendolo di Foucault sta fermo con la terra che gli gira sotto in qualsiasi posto si trovi. Ogni punto dell’universo è un punto fermo, basta attaccarci il Pendolo.”

Dio è in ogni luogo?

In un certo senso sì. Per questo il Pendolo mi disturba. Mi promette l’infinito ma lascia a me la responsabilità di decidere dove voglio averlo.”

“il pendolo di Foucault” – Umberto Eco

Mi fa ridere quello che è successo. Sognarti e poi buttare via la maglietta che mi desti, circa 25 anni fa. Non i “15 anni in meno” di Guccini. La nostra storia ne ha 10 di più. Ma non è tanto questo; lo so che è passato tanto tempo: me ne accorgo se penso alla persona che ero. Solo vagamente la riconosco. E’ proprio la concomitanza delle due cose a farmi ridere.

Il sogno era semplice: io e te che chiacchieravamo. Sapevamo degli anni passati, ma eravamo noi due di allora. Tu, identica. Io penso anche: una barba molto più rada ma sicuramente più scura. Ridevamo, parlavamo attraverso i vari “ti ricordi quella volta che…?”. Ho sentito anche il tuo corpo. In un abbraccio onirico me lo sono ricordato: esile, non tanto alto, piacevole. Era un’abbraccio come quello che ci siamo dati ad un binario della Stazione Centrale di Milano. Faceva caldo: tu mi avevi lasciato e io mi ero innamorato di un’altra. Non potevi farci nulla, ma mi sembrava che ti dispiacesse questo finale. Dispiaceva pure a me e volevo vederti stare bene, però stavo a mille in quei giorni. Il mio nuovo amore mi stava aspettando a casa sua, ma ci tenevo a salutarti.

La maglietta me la desti sempre ad un binario del treno, ma stavolta nella tua città (gli amori a distanza spesso puzzano un po’ di FS). Era tua, ma era troppo grande, oppure non ti piaceva, non ricordo. Me la desti, la presi. Maglietta bianca con davanti una frase di Bob Marley: “Stand up for your right”. Tuo padre militare mi chiese cosa ci fosse scritto. Glielo dissi. Rispose: “dei doveri non parla?”. Non in questa canzone, risposi, ma la trovai una uscita in linea con il personaggio.

La maglietta mi piaceva e me la mettevo spesso. Certo, pur riconoscendo la radicalità di Marley, preferivo magliette con il Che, con Lenin o con frasi di lotta più esplicite, meno conosciute. Però mi piaceva.

Negli ultimi anni era diventata una maeglietta per dormire, solo che, non so come, ha iniziato a sbrindellarsi sulla schiena. Buchi tondi, precisi, non sfilacciati. Variavano solo per dimensione. Per quanto le magliette per dormire non debbano essere perfettamente in ordine – ma nemmeno le altre in fondo – quella era un po’ troppo. Una mattina, mentre vagavo per casa appena sveglio, una amica mi chiese: “cosa è successo a quella maglietta?”. Mi girai prendendone un lembo per controllare, visto che non conoscevo o non ricordavo quel difetto. Risposi: “ahhh….sai cosa è successo? L’ho messa una sera che suonavo con il gruppo…e sai…le fans!”. L’amica mi guardò e in una frazione di secondo analizzò la mia risposta, per rendersi subito contro della cazzata che avevo sparato.

Il mio armadio delle magliette sembrava bombardato. Dovevo mettere ordine, così ieri ho iniziato a piegarle e ad ordinarle. Non facile la classificazione. Se ho la categoria “politica” e la categoria “gruppi musicali”, una maglietta dei Rage Against the Machine o dei 99 Posse, dove la metto? Penso sia il fatto politico quello preponderante, quello senza il quale questi gruppi non sarebbero nati, o forse sarebbero diversi da come sono. Mettendo ordine è saltato fuori Bob Marley. Ho raccontato la storia di quella maglietta alla mia compagna che, dopo aver ascoltato tutto – commenti militari compresi, storcendo il naso – , mi ha detto che avremmo potuto metterla sottovetro. Non mi pare una maglietta così bella, ho risposto. Allora buttala!

L’idea di buttarla mi ronzava in testa da un po’, ma solo ieri l’ho messa in pratica. La mattina dopo averti sognata e, seppur possa sembrare il contrario, la connessione fra le due cose mi si è svelata solo dopo averla gettata.

Lasciarsi era nell’ordine delle cose. Secondo me lo era anche per te, che vaneggiavi di matrimonio e figli (e avevi 17 anni quando ti ho conosciuta!). A me sulle prime il nostro rapporto piaceva, ma non mi facevo molte domande. Io di anni ne avevo 18-quasi 19. Una differenza non da poco a quella età. Primo ed unico, dicevi di me. Forse mi facevi tenerezza quando facevi così. In un certo senso però ne ero anche seccato. Non avevo ancora 20 anni e stavo bene con te. A me bastava. A te anche ma, forse per l’educazione, forse per la tua fede, aveva tutto un significato molto più intenso, assolutamente obliquo al qui ed ora. Per te ero LUI, che ad un certo punto arriva e basta. Ho cercato di dirti che non sarebbe stato così e che, con un po’ di fortuna, un giorno ce lo saremmo raccontati da amici ridendoci su, proprio come nel sogno che ho fatto.

Nel sogno non so di cosa abbiamo parlato, ma so come abbiamo parlato: pacifici, divertiti dal fatto che il caso abbia voluto farci fare un pezzo di strada insieme, proprio noi due, così diversi.

Pacifici nell’ultimo periodo non lo siamo stati molto. Lasciati, ripresi, sempre 300 km di ferrovia fra noi due. Io ormai avevo capito dove si stava andando a parare, ma per pigrizia – ammetto – ho lasciato che le cose andassero male. Non me la vivevo bene, e mi mancava la te del primo periodo, ma a quella età si corre, si cambia, anche se il quotidiano pare cristallizzato. Sentivo che non ero io per quello per te. La cosa mi dispiaceva, ma non potevo farci nulla, non potevo diventare chi volevi tu. Tutta l’epicità che mettevi in ogni ricorrenza, in ogni prima volta, iniziava a pesarmi. Mi promettevi l’infinito ma lasciavi a me la responsabilità di decidere dove averlo. Non lo so dove lo voglio, non so nemmeno se c’è. E mi interessava sempre meno. C’era una chioma rosso scuro e due occhi verdi che proprio non riuscivo a non guardare.

Con gli anni ho iniziato a guardare con interesse dove la gente decideva di mettere il Pendolo. Mi interessavano soprattutto le soluzioni più audaci, blasfeme, impensabili. Il soffitto di un bordello mi interessava molto di più del soffitto del Conservatoire come luogo prescelto. L’importante era che continuasse ad oscillare, garanzia empirica di movimento e di vita. Oppure innegabile presenza di divinità superiori, per chi ci crede. Mi interessava comunque.

Tante, tantissime volte la voglia è stata di staccarlo, brutalmente, tirando con tutto il mio peso verso il basso, schivando intonaco e calcinacci, arrotolare tutto e portarmelo via il falso profeta, senza sapere bene dove andare, ma sicuramente non più lì dove stavo prima. Non è una soluzione da escludere e poi ogni contestazione porta con sé qualcosa di interessante, però c’è bisogno di oscillare e quindi serve un punto fermo.

Io, alla fine, ho deciso di appendere il mio pendolo sopra al soffitto dove vive quella chioma rosso scuro con i due occhi verdi.

Il mio infinito.

terza dose

Dormirei sempre un po’ di più la mattina. Il calore del letto e la mente che si risveglia, sono sensazioni che avrebbero bisogno di tempo. Non ce n’è molto però. Mi alzo. Dose di caffè, lavata sommaria e via a portare i giovani a scuola. Il freddo lo avevo già sentito sul balcone, alla prima sigaretta della giornata. Un freddo che sopporti perché il caldo della casa è a pochi passi. Allora tiri ancora un po’ dalla sigaretta, ti guardi intorno: la tua macchina parcheggiata lì sotto, il portinaio che spazza la strada dalle ultime foglie morte della stagione, anche lui con la sigaretta in bocca. Sembra una versione urbana di Slash, ma le similitudini si fermano alla sigaretta in bocca sempre presente.

Usciamo dal portone, siamo in strada. Non so bene perché nella piazza dove vivo il freddo e il ghiaccio non si fermano molto sui tetti delle case e sui vetri delle macchine. Ma basta attraversare la circonvallazione, camminare lungo i marciapiedi ampi e spogli che portano al plesso scolastico per avere tutto un altro scenario. L’asfalto è bianco, tranne che per i segni lasciati dalle ruote delle macchine. Nella zona del distributore di benzina davanti al quale quotidianamente passiamo – commentando di volta in volta le nuove spazzole dell’auto lavaggio, il sistema di rifornimento quando arriva la cisterna del carburante, alcune macchine dall’aspetto sportivo ferme alla pompa – il bianco della brina è ovunque. Così come sulle auto in sosta lì vicino: completamente coperte da uno strato di bianco gelato nemmeno troppo sottile.

Bho, penso. Sarà che la nostra piazza è più riparata mentre lì invece è tutto più esposto alle intemperie.

Torno a casa. Mi lavo meglio, mi metto un altro maglione e prendo le chiavi della moto. Devo andare a fare la terza dose, al palazzo delle Scintille. Non è lontano da casa mia, ma è una di quelle distanze che a piedi sfiorano la mezz’ora. In moto 10 minuti prendendosela comoda.

Arrivo al garage, accendo la moto e aspetto. Aspetto che il motore si scaldi, che tenga il minimo senza l’aiuto della mia mano destra sul gas. Vecchia Suzuki da 75mila chilometri ed oltre: funziona a meraviglia ma, da attempata signora, ha bisogno dei suoi tempi.

Mentre il motore si sveglia penso se ci sarà coda, casino, disservizi, rivolte, manifestazioni no vax.

Esco dal garage. La mia moto ha una scia di fumo bianco che la accompagna. Almeno finché avrò una sola tacca su tre di temperatura del motore. Guido piano, temo un po’ quei rimasugli di bianco scivoloso sull’asfalto.

Arrivo a destinazione. Parcheggio proprio davanti, sarebbe vietato, ma una selva di moto e motorini mi fa andare con la massa.

Via il casco, i guanti, il sottocasco. Blocco la moto e mi dirigo verso un alpino attempato che fa sfoggio della sua piuma sul berretto. Non ho nessuno davanti, saluto e presento il mio smartphone con l’sms della convocazione. L’alpino non vede bene, c’è un riflesso sullo schermo. Vorrebbe prenderselo ma poi si rende conto che in tempi di pandemia non è una buona idea. Così inizia a muovere la mano come se lo tenesse nel palmo. Io seguo i suoi movimenti con il telefono effettivamente in mano.

“sì, prego, si accomodi”.

Cammino seguendo le frecce. Entro in una specie di enorme hangar. Attraverso delle porte fatte a strisce di plastica spessa che penzolano dall’alto. Tipo quelle fuori dagli alimentari quando ero ragazzino, ma queste sono molto più grandi. Mi viene in mentre il film “Cassandra Crossing” o uno con Dustin Hoffman che mi pare si intitoli “Virus”.

Cassandra Crossing – 1976

Dentro è tutto molto tranquillo. Nessun segnale della fine del mondo. Una infermiera mi manda verso un box, tipo quello delle fiere commerciali. Dentro c’è un medico. Capelli bianchi, occhi chiari e aria rassicurante. Mi fa cenno di accomodarmi, scannerizza la mia tessera sanitaria, mi chiede se per i due precedenti vaccini sono stato male e che vaccini ho fatto

“Moderna” dico

“beh oggi farà Pfizer”

Sorrido come a dire: se me lo dice lei.

Lui sorride come se avesse capito.

Lo saluto e vengo indirizzato verso un altro corridoio con tanti box. Il mio è il 5. Ad attendermi una infermiera mora e bassa. Con fare gentile mi dice di togliermi il maglione. Sotto però ho una maglietta a maniche lunghe abbastanza aderente. Provo a tirare su la manica fino alla spalla ma è impossibile.

“credo se la debba togliere”

“già – rispondo – questa mattina non ci avevo pensato, vestendomi”

Me la sfilo. Resto nudo dalla vita in su. Lei mi guarda, io mi siedo ma improvvisamente penso che non sia una buona idea appoggiare la schiena nuda su una sedia dove è passata mezza Milano. Resto in una posizione di mezzo.

Lei mi dice:

“ora però si deve rilassare. Rilassi soprattutto il braccio. Facciamo sul sinistro, va bene?”

Mi rilasso. La puntura quasi non la sento. Non c’è nemmeno confronto con la macellaia che mi iniettò la seconda dose di Moderna al Pio Albergo Trivulzio, a luglio.

Mi indicano di accomodarmi in una grande sala con le sedie distanziate.

palazzo delle Scintille, Milano

Un signore con la pettorina “volontario Milano” e non so cos’altro, mi dà un bigliettino. Sopra c’è stampato un orario: le 11:07. Bisogna attendere 15 minuti prima di uscire: magari stramazzi subito dopo l’iniezione e allora è meglio che tu stia ancora un po’ dentro.

Di fatto è l’unica attesa oggi.

Dalla tasca interna del mio giaccone – poco motociclistico, ma molto caldo – prendo il libro che mi sono portato.

Fabrizio Barca, “Disuguaglianze Conflitto Sviluppo”. Regalo di mia mamma. L’ho iniziato con un certo scetticismo. Gente che ha creduto nel Pd, meglio tenere la distanza di sicurezza. Di mia mamma però mi fido: nonostante le nostre idee politiche non siano esattamente sovrapponibili, condividiamo una impostazione di fondo. Lei è sempre stata più per la ricerca della sinistra all’interno delle istituzioni (da qui il suo apprezzamento per Barca), io per la ricerca della sinistra al di fuori. Ci siamo scambiati dei testi e direi che abbiamo sempre apprezzato i contributi reciproci.

Barca ha il merito di andare a fondo delle cose. Vede il conflitto lungo linee di frattura a mio avviso corrette. È un libro denso, senza dubbio. Riconosco le sue riflessioni come base per una eventuale discussione (e continuo a chiedermi cosa possa avere a che fare un pensiero del genere con il Pd)

Nella prima parte del libro Barca parla di pandemia, vaccini e case farmaceutiche. Parla di equilibrare i brevetti e la tutela della proprietà intellettuale, con la necessità di libera fruizione delle scoperte scientifiche. Fa riferimento all’accordo Trips del ’94 (accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale) sottolineando come sia eccessivamente sbilanciato verso i primi, di fatto privando la collettività di poter fruire delle scoperte scientifiche (fra cui, ovviamente, i vaccini).

Inoltre la logica degli utili che guida le case farmaceutiche fa sì che non vengano prodotti vaccini per malattie presenti in paesi che non potrebbero comprarseli, così come non vengono prodotti vaccini per malattie che colpiscono solo una parte marginale della popolazione mondiale.

Venendo a noi, all’Italia e all’occidente, abbiamo subito questa logica nella misura in cui – sempre per l’idea degli utili – non viene fatta una ricerca costante, ma le risorse vengono attivate quando il problema è ormai lampante, la pandemia è certa. Solo quando si ha la certezza di vendere i vaccini, allora ci si attiva. Per questo quello che ci stanno inoculando non lo chiamerei propriamente vaccino, ma più “cura”. Onestamente non credo sia nociva, non penso che ci ammazzerà tutti. Certo è che però si tratta di una grande sperimentazione, sviluppata anche molto velocemente, vista la situazione degli ultimi – quasi – due anni. Penso che forse un lavoro di ricerca costante e non attivato necessariamente da una emergenza sanitaria mondiale, avrebbe potuto creare un prodotto più mirato.

Mentre faccio questi pensieri si sono fatte le 11:09.

Esco, risalgo in moto e vado verso casa.

Vorrei prenderla larga, girare un po’. Raggiungere almeno le 3 tacche di temperatura del motore. Però fa freddo. Parecchio. E poi, a dirla tutta, le cose da fare a casa non mi mancano.

Allungo un po’ il tragitto del ritorno, ma non di troppo.

Guido e penso. Tutti i miei sensi sono allertati: ho amici e coetanei che con la terza dose si sono fatti una notte d’inferno, o pomeriggi divanati mezzi morti. Io al momento sto bene, ma so che è presto per cantare vittoria.

Arrivato a casa mi chiedono: come stai? Bene, grazie. Per ora bene.

Apro una testata on line, una delle più mainstream. Non mi interessano le notizie che riporta, mi interessa cosa sta raccontando al paese, quali saranno le prossime emergenze, i prossimi nemici.

Sulle prime nessun indizio – l’emergenza che c’è evidentemente basta e avanza – ma grandi bordate sui secondi. I no vax. Ricordo di aver letto un virgolettato in cui, il premier e il ministro della salute, dicevano: la colpa di questa situazione è solo loro.

Con tre dosi di vaccino in corpo mi pare ovvio che le mie scelte siano diverse da quelle di chi ha deciso di non farsene nemmeno una. Nonostante questo trovo che il messaggio sia fuorviante, oppure perfettamente calzante, se il discorso è: troviamo un nemico, perché così parliamo di quello e non delle mancanze strutturali del nostro sistema. La fragilità del sistema sanitario, smantellato secondo un piano preciso, le mancate chiusure di quasi due anni fa in nome del profitto, l’ipocrisia del dire “chiudetevi in casa e basta”, come se fossimo tutti nella stessa condizione, con gli stessi metri quadri a disposizione, con lo stesso numero di device pro capite a disposizione.

La grande narrazione disturbata da chi si ostinava a non voler uscire solo per lavorare o fare acquisti. Da chi, tipo me, portava ogni due giorni fuori la figlia fino all’edicola, o fino al parchetto recintato, giusto per cambiare aria.

Senza dubbio ci sono state condotte poco intelligenti di singoli o di gruppi, ma paragonarle alle responsabilità sistemiche di questo stato e di questo modo di produrre è quantomeno ridicolo. Come può essere messo sullo stesso piano un runner che magari non rispetta la distanza massima consentita dalla propria abitazione per allenarsi, con una sanità che opta per i grandi agglomerati curativi – e di profitto – al posto della medicina territoriale (ora che ci penso Gallera è riuscito ad accollarsi entrambe le responsabilità).

Il caos che si è generato durante la prima ondata ha dimostrato la sostanza di un sistema iniquo, che non conosce il concetto di collettività.

Ma c’era l’emergenza, ogni voce critica era responsabile o, nel migliore dei casi, non portava rispetto a tutte quelle persone decedute.

Un racconto assurdo, distopico. Un racconto del Male.

Poi in fretta e furia sono arrivati i vaccini. Molto in fretta. Normale che parte della popolazione, abbandonata e colpevolizzata durante i vari lockdown, non si sia fidata, abbia sentito puzzo di bruciato e, privi di riferimenti e di schemi cognitivi ed interpretativi, sia partita per la tangente del 5g, degli alieni in combutta con i rettiliani.

Questo serviva: una massa ignorante e cafona a cui dare la colpa di tutto. E se massa non era e non è – stando ai numeri dei vaccinati, direi che è una minoranza abbastanza ristretta – allora tale la si fa diventare. Raccontando di pazienti oncologici che non si possono curare per colpa dei no vax, dei parchi in cui non possiamo andare per colpa dei no vax e di tutte le brutture che stiamo vivendo per colpa dei no vax.

Che poi no vax non vuole dire niente. Ma piace molto mettere un “no” davanti, come a dividere gli evoluti dai primitivi. Il “no” che rifiuta il progresso, la scienza e la conoscenza.

La linea di frattura da dare in pasto al grande pubblico se non c’è te la inventi. Tanto di testate prodighe nello spacciarla ne trovi. Ci sono quasi tutte.

No vax non vuol dire nulla perché butta in un unico calderone chi non si è vaccinato per diffidenza non circostanziata, chi perché ha scelto un percorso di vita senza medicine e con rimedi naturali, chi si è vaccinato per tutte le malattie previste ma non per questa, chi non si è mai vaccinato per nulla, chi, per patologie personali, non può vaccinarsi (ho la sensazione che di quest’ultima casistica non avremo mai un quadro completo).

E allora mi viene il vomito, mi fa schifo pensare a questo capovolgimento di responsabilità, a questo raccontare una realtà che funziona solo se vista attraverso una determinata inquadratura, data e indiscutibile.

“Don’t hate the media. Become the media”

basta allargare un po’ per vedere meglio. Per vedere altro.

Come stai?, mi chiede la mia compagna mentre siamo a letto a leggere.

Bene grazie. Per ora tutto bene.

Ottobre non è un disco dei Led Zeppelin

…somiglia più a…chi è che avevo nominato ieri sera, sul balcone, mentre finivo di fumare? Forse ho scomodato un Enrico Ruggeri o giù di lì.

Bisogna aspettare la bella stagione per tirare in mezzo gli Zeppelin. Un attacco come quello di “Good Times Bad Time” è un aprile, o un maggio con un sole caldo. Giugno e luglio sono Abbey Road dei Beatles. Su questo non c’è discussione.

Qui invece si cerca una espressione artistica minore, per associarla a questo periodo. Magari una di quelle canzoni mediocri che però hanno qualcosa di buono: una bella armonia che lancia il ritornello, un controcanto azzeccato. Come questi giorni: alcune sfumature degli alberi, alcuni raggi di sole puliti che entrano in camera. Per il resto clima mediocre. Che peggiorerà. Arriverà novembre e il suo corrispettivo musicale ancora non mi viene in mente, ma credo che basterà pescare nel torbido.

Ieri ho pensato che fosse cosa buona e giusta salire in moto. Mi serviva per pensare un po’. Non ho fatto molta strada, sono arrivato fino ad una Feltrinelli. Deserta. Ho intercettato subito una ragazza con pettorina e aggeggio per consultare il catalogo in mano.

“Buongiorno, cerco un libro di Nuto Revelli. Si dovrebbe intitolare…il ‘mondo degli sconfitti’ o qualcosa di simile”

La ragazza cerca, digita. Poi sentenzia: “Il mondo dei vinti

“sì ecco, dei vinti”

“primo piano, storia contemporanea”.

Mentre salgo le scale penso che questa classificazione potrebbe tornarmi utile quando quel libro finirà nella libreria. Ultimamente stiamo risistemando i libri e spesso non si sa bene come considerare certi scritti. Amo gli oggetti narrativi non identificati (e per questo amo le Edizioni Alegre), ma spesso oscillano fra varie voci di catalogazione.

Trovo la sezione, mi avvicino. Vengo colpito da un libro di Mimmo Franzinelli sul Giro d’Italia. Lui lo ricordo per il bel libro sulla amnistia Togliatti (il vero difetto di quel libro è il carattere troppo piccolo) e non pensavo che scrivesse anche di sport. Mi piacciono gli studiosi che si occupano di sport. E poi il Giro d’Italia direi che non è solo sport. Sono tentato, ma resto concentrato. Cerco Revelli.

Ho saputo del libro di Revelli leggendo “Alpi ribelli” di Camanni (al quale, a sua volta sono arrivato tramite “Le conseguenze del ritorno” di Luca Giunti”).

“Alpi ribelli” è un libro piacevole. Chi scrive sa quel che dice: uomo di montagna, attento osservatore, persona colta. Il filo conduttore di “Alpi ribelli” è la montagna come rifugio dei ribelli, dai Valdesi al militante No Tav Luca Abbà. La montagna come luogo insediato dalla città, che colonizza le cime, per lo sci, e la valle, per i servizi. Le identità montanare si perdono, la gente emigra, i valori si sfilacciano. Camanni conosce la complessità delle cose e cerca di districarsi fra un passato perduto ma carico di valori e prospettive sostenibili e un presente in cui il “progresso” viene declinato esclusivamente nella sua forma più vorace. Parla di Revelli e del suo mastodontico lavoro di messa a registro di un mondo in disfacimento, quello dei pastori ma anche dei contadini giù a valle o a mezza collina. Revelli ha intervistato, registrato, sbobinato, preso nota, fino ad arrivare ad un libro di oltre 400 pagine.

Prendo in mano il libro di Revelli. Lo soppeso, lo sfoglio. Pare ben fatto, ma forse, al momento, non è quello che cerco. Sto seguendo un filone, confuso e rabberciato come spesso mi capita, ma sento che non sto andando esattamente lì.

Il discorso di un passato contadino perduto, travolto da uno sviluppo assoluto e indiscutibile, è un tema caro anche a Pasolini. È però, appunto, un filone a parte. Come gestire questa dicotomia? Quali anticorpi deve avere il discorso per non suonare come reazionario e conservatore? Non lo so. Dovrei capire meglio.

Non so bene quale filone io stia seguendo. Forse sono semplicemente alla ricerca di un qualcosa di bucolico, a contatto con la natura, inconsciamente spaventato dal fatto che, tranne qualche eccezione, Milano sarà il mio scenario almeno fino a Natale. Natura e ribellione; o meglio: la natura come ribellione.

Non compro il libro. Non compro niente. Riscendo le scale guardandomi intorno. Esco, tolgo la mascherina e accendo la moto.

Ha qualche problema con il minimo. Forse sente il freddo. Tengo un filo di gas con la destra, mentre con la sinistra aspiro da una sigaretta.

…no, ottobre non sono gli Zeppelin.

È più una musica tranquilla, ma senza molte variazioni.

Un blues, forse, uno struggimento.

Tre accordi che girano in sequenza, aspettando sonorità più varie e coinvolgenti.

Servono però comunque per fare pratica.

…che pure ottobre può sembrare bello (o della versatilità del ragno)

La versatilità del ragno – la rete porta oggetti per moto – è notevole. Un oggetto piccolo, che costa pochi euro, in grado di allargarsi ed allungarsi fino a imbrigliare volumi anche molto grossi. Accessorio indispensabile, anche solo da avere dietro per ogni chissà.

Lego la cassa di libri alla sella, al posto del passeggero. Pare solida e ferma. L’altra cassa finisce nel bauletto della moto. Che però così non si chiude. Prendo una cinghia comprata anni fa, i primi tempi della Vespa. Ha dei colori caldi, rosso, giallo e arancione, un po’ sbiaditi. Blocco il bauletto, controllo ancora una volta la cassa che fa da passeggero e parto.

Da vari anni quelle casse di libri sarebbero dovute tornare a casa mia. Solo che prima non c’era posto, poi c’è stato il trasloco, poi l’estate, alla fine mi sono deciso ora. E tante ancora ne mancano.

Torno a casa, scarico e le apro. Vengono fuori vecchi romanzi, libri della Shake, edizioni del Leoncavallo, della Castelvecchi, moleskine di appunti, moleskine di appunti solo politici, foto, locandine, la scaletta di un concerto della Banda Bassotti di chissà quando, una bellissima edizione delle “Mille e una notte”, inediti di Pino Cacucci, “Altai” dei Wu Ming che non pensavo di possedere.

Scatta il problema della classificazione. Vado per argomento, almeno per quel che riguarda il sociale e la politica. Vado per autore sulla narrativa, dividendola per nazionalità.

Mi serve per ritrovarli, più che altro. La tentazione di sbattere tutto dentro e liberarmi delle carcasse degli scatoloni è forte. Però deve avere un senso. E poi, una volta sistemati alcuni “settori”, c’è quasi un equilibrio cromatico fra libri che parlano dello stesso argomento.

Ogni cosa ne richiama un altra, ci sono collegamenti fra tante cose, innumerevoli, a volte disorientanti per mole. Tenere tutto insieme è un bell’esercizio. Mi piace.

Ogni tanto sbricio Twitter. Mi trovo sempre peggio su questo – unico – social cui sono iscritto. Il problema è proprio il tweet, cioè a dire quei pochi caratteri da botta e risposta. E il botta e risposta regolarmente non fa centrare il fulcro del problema, fa prendere derive spesso nate da questioni personali, coacervo di domande retoriche fuori posto e fuori luogo. Pochi i link a contributi apprezzabili, poca intenzione di uscire da lì, da quel giro.

Ingenuamente forse, avevo pensato che proprio la brevità imposta da twitter, con i suoi vecchi 180 caratteri, imponesse di usarlo per andare altrove. Un luogo dove scambiarsi due opinioni due supportate però poi da link ad articoli, documenti e approfondimenti vari. Una occasione per trovarsi e prendere insieme altre strade, indicarne di nuove, magari costruire quelle necessarie. Invece non è esattamente così.

Leggo il tweet di un profilo che seguo (e lui segue me): mette insieme i no vax e i no green pass senza alcune distinzione. Un unico calderone di opposizione ad una civiltà della medicina e della scienza che per ignoranza qualcuno ha deciso di seguire. Sulle prime non capisco. Pare un compagno, parla della Palestina e degli scioperi. Penso di parlare ad uno di noi, quindi decido di rispondere, sottolinenando che io, personalmente, sono favorevole al vaccino ma contrario al Green Pass.

A questo punto mi pare inutile ricostruire il nostro scambio, perché vengo subito ascritto alla galassia “no vax”, mi viene detto che la mia posizione è davvero strana e finisce a parlare di come i vaccini siano distribuiti nel mondo in modo diseguale e noi che li abbiamo dobbiamo usarli per rispetto a chi non ce li ha (e il collegamento con il Gp scompare, come se fosse implicito).La chiudo velocemente e civilmente. Smetto di seguire il mio interlocutore perché penso che non abbiamo nulla da dirci (e lui fa altrettanto con me poco dopo).

È proprio il “nulla da dire” che a volte mi viene fuori e che mi blocca. Passo buona parte del mio tempo a leggere, a cercare di capire, e trovo contributi davvero notevoli, chiari, che rimandano ad altri contributi ed altri ancora. Leggo tutto avidamente, prendo nota.

Muovo i miei passi partendo, come spesso mi capita dai compagni della Wu Ming Foundation. Avrò riletto 10 volte questo articolo . E ho girato varie volte fra i capitoli di questo dossier. Ho seguito quante più diramazioni possibili e mi sono fatto una idea. Che poi è sempre la stessa. Parti con una logica contro il capitale e ti troverai bene.

Io mi sono vaccinato. E sono contro il Green Pass. Credo che la vaccinazione sia utile e credo che il Gp non serva a nulla.

Ricordo la retorica dominante dopo l’arrivo dei primi vaccini: Draghi e i suoi accoliti paragonavano chi non si vaccinava ad un complice di omicidio. Non entro nel merito dell’affermazione, non mi interessa confutarla qui. Preferisco riflettere su quella che dovrebbe essere la conseguenza di questo discorso. È questo il livello di pericolo cui andiamo incontro? Davvero? Allora, visto che sei il presidente del consiglio, agisci di conseguenza: rendilo obbligatorio Se il tenore delle argomentazioni pro vaccino è questo – responsabilità della morte di altri cittadini – allora non può che gestirlo il governo. Qualunque altra soluzione risulterebbe inadeguata.

Invece no. Non è andata così. La vaccinazione non è obbligatoria. È volontaria. Sta quindi alla volontà del singolo. E il singolo si vaccina. Verso fine primavera veniamo vaccinati anche noi e la curva dei vaccinati si alza e continua a crescere ripida fino ai primi di luglio. Poi cresce ancora, ma più lentamente. Il 6 agosto di quest’anno entra in vigore il green pass. Lo devi esibire per poter accedere a determinati luoghi e servizi e viene subito raccontato come la diretta conseguenza della esistenza del vaccino (anche se vedendo i grafici dei vaccinati, il Gp non ne ha in alcun modo incrementato la richiesta).

Ma vaccino e vaccinazione non sono la stessa cosa (e qui è spiegato bene). Il vaccino segue un iter scientifico, viene approvato secondo protocolli standard e secondo un procedimento oggettivo. La vaccinazione invece è il modo attraverso cui i vaccini vengono prodotti e somministrati. Nella vaccinazione c’entra la politica e vengono fatte scelte che non provengono da un processo scientifico, ma riguardano le priorità politiche di chi ci governa.

La narrazione però questo non lo prendeva in considerazione. La scientificità ed oggettività del vaccino era trasferita, come diretta e naturale conseguenza, alla vaccinazione. La vaccinazione, e quindi il Gp, potevano godere dello status di scelta scientifica, inevitabile.

Non serve addentrarsi più di tanto nei meandri delle disposizioni relative al Gp per capire che la scientificità e l’oggettività sono aspetti che nulla c’entrano con quanto sta accadendo.

Il Gp lo devi tirare fuori al teatro e al cinema, ma non nel centro commerciale. A teatro e al cinema, se le disposizioni anti Covid sono rispettate (posti distanziati e ingressi scaglionati) , il rischio è minore rispetto ad un centro commerciale, dove razzoli liberamente assembrandoti davanti alle offerte più allettanti (e anzi sei assolutamente incentivato a farlo).

Pare quindi che il centro commerciale, il commercio, il “consuma e non rompere i coglioni” sia tutelato al di là delle buone pratiche di contenimento. La logica è la stessa: riqualifichi un’area? Ci metti un centro commerciale. Rifai uno stadio? Dentro ci sarà spazio per ristoranti e negozi. Crei un nuovo quartiere dal nulla? Centro commerciale come luogo di “socialità”. C’è una pandemia? Anche se non ti sei vaccinato, lì ci puoi andare.

A me pare tutto uguale.

Ecco, come questa cosa non sia visibile davvero mi stupisce. Forse aveva ragione Edgar A. Poe quando diceva che il modo migliore di nascondere una cosa è metterla sotto gli occhi di tutti. Tanto nessuno pare veda un cazzo.

C’è un aspetto forse appena meno visibile ma ancora più profondo. Il Gp ribalta le responsabilità. Così come durante il lockdown il responsabile era il runner o chi portava fuori il cane, oggi il responsabile è chi non ha il Gp. Non una sanità smantellata da decenni di saccheggio perpetrato da governi sia di destra che di “sinistra”, non una logica che ha scardinato la medicina sul territorio in favore dei grandi centri ospedalieri (e la pandemia ha dimostrato quanto sia importante avere presidi medici distribuiti capillarmente sul territorio), non le decisioni prese da Confindustria che hanno fatto lavorare gli operai anche in pieno picco pandemico. Niente di tutto questo. Il colpevole è il singolo. Che andava a correre, che usciva a passeggiare e che oggi non ha il Gp.

È il rovesciamento sul singolo, la strategia. Semplice e facile: metti gli uni contro gli altri. Crei un pensiero unico e chi vi aderisce ha privilegi e accessi riservati. Gli altri si fottano, troppo ignoranti per essere presi in considerazione.

Non è la politica del governo – di questo governo in particolare – a stupirmi. La logica è sempre la stessa: proteggere il profitto, disincentivare l’aggregazione su basi sociali e conflittuali. È persino ammirevole la capacità di adattamento del sistema alle situazioni. Mi sorprende la cecità di chi si dice “compagno” e poi di fatto non vede quelle dinamiche che un compagno dovrebbe sempre saper vedere.

Lo sberlone del lockdown, la famigerata primavera 2020, è stato un colpo da cui non è stato facile riprendersi. Ricordo che verso metà aprile avevo smesso di informarmi. Leggevo solo i numeri, cercando un barlume di oggettività, cercando di fare delle previsioni. Però per quasi due settimane ho lasciato perdere ogni analisi. Penso che questa reazione, più o meno intensa, l’abbiamo avuta in molti. La fatica di prendere in considerazione la realtà, di sfuggire alla logica dell’emergenza – fuga davvero complicata durante il lockdown, perché lo scenario fatto di strade deserte ti calava in un contesto assolutamente nuovo, sconosciuto, che non aiutava a fare luce e chiarezza.

Ecco, io ho la sensazione che, soprattutto fra compagni, molti non si siano mai davvero ripresi. Ho percepito una implicita adesione alla narrazione dominante, all’affidarsi a chi ci governa farneticando di responsabilità e doveri verso gli altri, tutti uniti per uscirne insieme. Le differenze di classe, le differenze di responsabilità, i rapporti di forza, tutto cancellato. Stringiamoci insieme, #andratuttobene e così poi possiamo riprendere a begare fra noi. Sospendiamo l’attività critica. Come se fosse tutto cristallizzato dall’emergenza. Ma in realtà si è fermato solo il dissenso. L’attività padronale ha continuato e continua imperterrita, con la massiccia arma a disposizione del “se non fai così sei un untore assassino”.

In questi giorni ci sono stati scontri a Trieste. I lavoratori portuali avevano deciso di bloccare il porto, contro le politiche del Gp e tutto quel che ne deriva per loro. È forse bene ricordare che i lavoratori della logistica sono stati i più mazzolati, hanno lavorato sempre, anche durante il lockdown duro, senza nessuna protezione, senza alcun tipo di misura di contenimento pandemico. Se in una scuola, alla presenza di un positivo al covid, si bloccava l’insegnamento, tutto ciò non è successo mai per questo comparto produttivo. L’istruzione si poteva fermare, la logistica no. A nessun costo.

Ora: mi risulta molto difficile cercare di spiegare che quando gli operai manifestano, l’attenzione deve andare lì. Aspettarsi l’operaio che ha piena coscienza, che ha il manifesto in tasca, che ha la tuta blu è nostalgico e idiota. Per dare battaglia tocca mettere mani e piedi nella merda. Ho letto e sentito vari interventi e contributi relativi a questa lotta. Alcuni assolutamente circostanziati e condivisibili. Altri contenevano alcuni passaggi contestabili, altri non centravano proprio il bersaglio. Per chi è comunista è un lavoro da fare. Immaginarsi sempre e comunque la battaglia pulita, giusta, motivata, che non sbaglia i piani, che usa parole che riconosciamo “altrimenti nemmeno mi ci metto”, è un atteggiamento conservatore e reazionario.

Bisogna buttarcisi dentro. Districare la matassa, avere chiari gli obiettivi e dove sono le “linee di frattura” reali, quelle che interessano chi ha a cuore il rovesciamento dello stato di cose presenti.

Chiaro che c’è confusione. Chiaro che a volte i collegamenti non li trovi, le contraddizioni abbondando, i fasci te li ritrovi in piazza e invece di limitarti a schifarli tocca scendere in piazza e riprendersela, perché se loro sono lì vuole dire che non ci siamo stati noi.

Ci sono tanti colori, come in una libreria con tanti libri. Quando ti decidi a fare lo sforzo, a cercare i nessi, a trovare l’ordine giusto, a capire chi deve stare vicino a chi e perché, diventa bello, diventa armonico, diventa lotta.

Perché abbiamo tutti gli strumenti.

acqua in sala

L’antipioggia pende dalla doccia, facendo cadere acqua nella vasca da bagno. I pantaloni invece se ne stanno appesi alla maniglia della camera. Gli scarponcini, con chiazze più scure sulle punte, sono normalmente riposti in ingresso. È venuta giù un sacco di acqua. E tanta ne verrà ancora, fra oggi e domani. Ambiente ostile, Milano. Avevo una commissione da fare, coprendo una di quelle distanze che in macchina sono poca roba ma a piedi superano i 15/20 min di cammino. La macchina è un mezzo impossibile, almeno per me che amo guidare ma amo anche lo spazio, il poter disegnare traiettorie, usare tutte le marce, impostare le curve. In città non è così. E poi dove la vado a rimettere dopo che l’ho presa?

Milano. Ottobre. Non serve aggiungere molto altro. Mentre tornavo, a piedi, verso casa mia mi è venuta in mente la campagna, i piccoli paesini, quelli dove tutto questo non c’è. Dove lo spazio non manca, incontri pochissime persone, il parcheggio non è un problema. Esistono quei luoghi, anche in un lunedì mattina di ottobre a Milano. Esistono. Ci sono. Milano ti tira dentro, ti sussume, ti fa pensare che non ci sia altro, che la vita vera sia questa qui, mentre qualunque altro ritmo, qualunque altra fruizione dello spazio è vacanza, è tempo libero, sono momenti in cui non hai di meglio da fare che curiosare fuori dalla città.

Milano te la racconta, dicendoti che è il posto più figo, più all’avanguardia, dove ci sono molte possibilità, dove “le cose succedono”. Costa cara? Certo, ma hai visto quanto ti offre?

Effettivamente ti offre lavori per i quali ti devi ammazzare di ore, per poter sopravvivere. Pensare di campare a Milano con un part time è impossibile. Quindi ci dai dentro, stai in ufficio fino a tardi, perché devi racimolare risorse per poter avere il privilegio di vivere qui. Qui dove fa spesso freddo, dove le stelle di solito non si vedono, dove i bambini (e gli adulti) si ammalano per lo smog e l’aria insalubre. Dove è difficile chiacchierare per strada, perché anche l’inquinamento acustico è insopportabile.

Giusto ieri mi sono ritrovato nella cabina elettorale. Voto a Potere al Popolo e alla sua candidata e fine. Il sindaco uscente – che poi sarà lo stesso di quello entrante – è il perfetto esempio di come coprire con una mano di verde e di accoglienza, tutta la voracità di questa città.

Abile Sala, non c’è che dire. Uscendo dalla amministrazione Moratti, è riuscito a rendersi presentabile per fare la parte del manager (oggi senza un manager dove vai?) progressista, che veste arcobaleno se serve, che va al 25 aprile, capendo che l’antifascismo – nella sua declinazione da teca, da mera celebrazione e mai da strumento di analisi sui nuovi autoritarismi – è una moneta elettoralmente spendibile. Solo come posa, sia chiaro. Tiri dentro la borghesia milanese illuminata, quella che sta in centro ma che comunque alla bisogna sfoggia un Che, dandole da un lato una soddisfazione politica, dall’altro un rafforzativo della argomentazione “se non scegli Sala sale la Lega e quella gente lì. Alla fine Sala è pure antifascista”.

Sorvolo sul fatto che l’antifascismo o si fa strumento duttile e quotidiano per riconoscere i nuovi fascismi e combatterli senza paura di sporcarsi le mani, oppure non serve a nulla. È solo una maglia indossata un paio di volte l’anno. Sorvolo su questo perché sarebbe un argomento a sé stante, da analizzare e capire bene. Qui voglio solo sottolineare il fatto che mai come in questi anni il riferimento a certi valori della Liberazione è a tratti quantomeno contraddittorio. Non posso concepire un antifascismo che celebra Expo, macchina di cementificazione e sperequazioni, che sventra un territorio, lo sfrutta intensamente per qualche mese e poi lo abbandona. Invito a farsi un giro su cosa c’è nell’area Expo oggi: quando veniva fuori l’argomentazione “ma di quell’aria, passata l’esposizione, che ce ne facciamo?”, la risposta era una supercazzola sulle aree polivalenti e riqualificate, si nuovi poli universitari, sui centri direzionali e amministrativi e via concionando.

Logiche predatorie non possono in nessun modo conciliarsi con l’antifascismo.

Non posso concepire nemmeno un antifascismo che esulta in modo scomposto per le Olimpiadi invernali Milano – Cortina, ignorando il fatto che da vari lustri ormai le Olimpiadi sono l’occasione per costruire infrastrutture che non servono in alcun modo la collettività. Né durante la manifestazione sportiva, né – tantomeno – dopo. Anche qui invito ad andarsi a vedere cosa ha lasciato Torino 2006.

La decisione di destinare vastissime aree di suolo pubblico ad interessi privati, togliendo anche quel poco che di sociale in codeste aree si era riusciti, con fatica, a costruire, mi chiedo come possa, al di là delle dichiarazioni, coniugarsi con una politica di sinistra.

Milano è anche questo. La voglia di dire che il Re è nudo e venire preso a sberleffi.

Anni di questa cultura e la difficoltà di distinguere cosa ha un valore socialmente riconoscibile e cosa assolutamente no, è sempre maggiore. Anni di martellamento individualista hanno imposto come metro di valutazione il proprio orizzonte individuale, il proprio giardino. Quindi le valutazioni spesso si riferiscono al fatto che ci sono più piste ciclabili, quindi ci metto meno per arrivare al lavoro, quindi bene. C’è lo sharing per i mezzi, quindi mi muovo meglio, non faccio tardi. Che poi tu magari ti stia svenando per pagare un affitto o un mutuo, sottostando a prezzi da bolla immobiliare (e pure culturale), lo si prende come un dato di fatto, un qualcosa sul quale si può fare poco. Difficile far capire che sono proprio quelle realtà di quartiere, quei comitati, quelle esperienze di lotta a fare da tramite verso il vero interesse generale.

Un sintomo abbastanza chiaro di questo ribaltamento di prospettiva, è rappresentato dal fatto che i vari comitati a salvaguardia dei parchi cittadini, ma anche più in grande, movimenti come No Tav, vengano accusati di avere prospettive limitate relative solo al proprio giardino, da cui l’accusa di essere Nimby, cioè “not in my back yard”. In realtà è il contrario, perché è opponendosi ad una ingiustizia sul proprio territorio che si crea la connessione con altre ingiustizie su altri territori, individuando dopo poco – e la storia di questi movimenti lo dimostra – come il problema sia sistemico e cioè sia il capitalismo, la logica del profitto che pervade ogni grade opera. Per inciso, in molti casi, come appunto la Torino – Lione, l’opera finita e funzionante non interessa a nessuno dei promotori. Il profitto viene estratto dal sistema degli appalti, mentre il dispiegamento di forze dell’ordine in campo per arginare la protesta, rappresenta sempre una buona palestra per scoprire nuovi sistemi di militarizzazione del territorio.

Ha ripreso a piovere. Fra non molto mi ributterò fra queste strade, queste pozze, questo traffico e questo grigio.

Cerco di non confondere i piani: il mio essere intollerante nei confronti della vita in città e la voglia di vivere in una casa sperduta in un bosco o – meglio ancora – davanti al mare senza nessuno intorno se non i miei affetti, non c’entra con la valutazione politica di questa amministrazione e, più in generale, con questa cultura amministrativa.

Sì, a volte sbaglio la misura e una giornata particolarmente pesante mi fa tirare in mezzo i tram affollati, il freddo, lo smog, Sala che si spaccia per compagno, il 25 aprile aperto pure a chi sta stroncando nel sangue un’altra Liberazione in corso ormai da decenni in medio oriente.

Torno a casa e mando a ‘fanculo tutti, indistintamente.

A volte invece, mentre i miei vestiti lentamente asciugano, mi metto a fare ordine.

il peso dell’assenza e dei colori

Mi dicevano “scrivi che sei bravo”, “è un peccato se non scrivi”, “più scrivi e più migliori”.

Tutto vero, almeno credo. Solo che non sempre mi riesce. Vedo troppe cose e ogni dettaglio ne richiama altri. Si creano ramificazioni di idee, ricordi ed emozioni molto belle da vedere, ma difficili da districare. È come trovarsi davanti ad una quercia, vecchia, forte e nodosa. Per forza di cose ne racconti un pezzo, un pezzo solo. Se sei bravo riesci a fare capire che ci sono molti altri rami, che hai scelto di raccontarne uno solo perché ti è venuto spontaneo così. Fra le righe si dovrebbero vedere altre foglie, altri tronchi e sentire la fresca ombra che fanno.

Oggi è stato così. È bastata una strada. Sulla circonvallazione ho preso a destra, per il naviglio pavese. Dritto fino a Pavia. All’inizio case basse, qualche vecchia cascina ai bordi del naviglio, alcune perfettamente ristrutturate, altre abbandonate. Verde, papaveri, alberi, ombra e sole. Tutto diritto. Gas e via.

È bastata una strada a scatenare tutti i giugni passati, quelli tra fine della scuola e partenza per le vacanze. Macchina carica di bagagli, la Maremma che si avvicinava. Il groppo alla gola per la luce fino alle 9 la sera, una “voglia di dare baci in bocca alla vita” e al contempo la sensazione che la stagione iniziata stesse già sfuggendo di mano. Come si rallenta il tempo? A che serve fare la conta dei giorni che mancano all’autunno? Niente. Il tempo non si rallenta. Puoi solo viverlo senza pensieri, cosa che non è mai stato il mio forte.

Guido la moto fino a Pavia. Di giugni se ne sono accumulati davvero tanti. Tutti diversi, tutti di fondo uguali. Quella voglia di “alzarsi in cielo e urlare chi sei tu” non mi ha mai abbandonato.

Ho guidato e ho pensato che certe perdite sono incolmabili. Ho pensato all’odore di mio padre, al mio sguardo su di lui mentre guidava e fissava la strada; ricordo anche come lo guardavo, un po’ dal basso perché ero piccolo, ma anche ammirato, fiducioso, sicuro. Lui non ha mai guidato la moto, però, quando presi la mia prima Kawasaki, disse che mi capiva, che doveva essere bello.

Guido e guardo i papaveri lungo il fossato, il verde forte di giugno, caricato da bombe di acqua e pronto a resistere alla calura. Ho fatto quella strada centinaia di volte. In moto, in macchina, persino in autobus ed in vespa. Andavo all’università di Pavia, e un giorno era per un corso, un altro per un esame, un altro ancora per la segreteria, poi anche per andare a feste di laurea di amici più giovani di me e laureatisi prima di me.

Mio padre guida, cambia marcia, sterza, ogni tanto guarda nello specchietto, a volte mi appoggia la mano sulla spalla e mi sorride. Con me ha sempre avuto un sorriso paziente e naturale. Non doveva “armarsi di pazienza”, come si dice di solito. Ce l’aveva già. Sapeva che le cose si sarebbero sistemate, per me, per la mia vita, persino per i miei studi che ho reso sempre più complicati del necessario. Ripenso a quella calma con una tenerezza che mi schiaccia. Ora direbbe: hai visto? Si è sistemato tutto no?

Sì papà, ma c’è ancora molto da fare.

Ma questa è la vita

Ci sono i campi di grano lungo il Ticino. Qui han girato “Il ragazzo di campagna” con Pozzetto. Cerco la casa in cui abitava, nel film. So che è qui vicino. Se la trovo mi fermo e faccio una foto, così la mando ad una mia amica fan di Pozzetto, che non sta attraversando un bel periodo.

Spazi aperti, sole, verde e giallo i colori dominanti.

La strada è stretta ma poco trafficata. Vedo bene tutte le curve e su alcune allungo, penso alla traiettoria e le prendo bene. A tratti invece giro con il motore al minimo. Mi guardo intorno, a volte tolgo la mano sinistra dal manubrio e mi diverto a giocare con l’aria.

È una buona moto. Un bellissimo regalo.

Passo vicino a qualche acacia e il pensiero va alla maremma, a quando finalmente si arrivava, a mio papà che scendeva di macchina facendo un “aaaahhhh!!!” soddisfatto.

“avessi qui la forza

della tua presenza

ma tu sei quello che vuoi

e infine ognuno ottiene quello che vuole

e se ne sta con i suoi

avessi il dono di interrompere la pioggia

avessi anche io diritto ad un equilibrio

ma enorme

di questa pace addosso

non so che farmene”

Assalti Frontali – “Notte d’acqua”